Cardiomiopatia ipertrofica

La cardiomiopatia ipertrofica è la patologia cardiaca più comune nel gatto, che colpisce circa un gatto su cinque. Le razze di gatti più colpite sono il Maine Coon, il Ragdoll, lo Sphinx, il British Shorthair, il Bengala, il Siberiano e il Perisiano. Tuttavia tale patologia si può comunemente riscontrare anche in altre razze, compreso il comune gatto europeo. L’età media di insorgenza è circa 6-7 anni, anche se a volte può presentarsi più precocemente intorno ai 2-3 anni di età.

Cosa succede nei gatti con cardiomiopatia ipertrofica?

Tale patologia determina un ispessimento anomalo delle pareti del ventricolo sinistro, interferendo con la capacità del cuore di “rilassarsi” tra una contrazione e l’altra. La fase di rilassamento tra ogni contrazione cardiaca è chiamata diastole e, se ciò non avviene correttamente, il cuore non può riempirsi di sangue in modo efficace. Se grave, può portare a insufficienza cardiaca.

Quali sono i primi sintomi della patologia?

Nella fase iniziale della malattia i gatti possono non mostrare alcun segno e apparire del tutto normali. Inoltre, un certo numero di gatti con cardiomiopatia potrebbe non sviluppare mai dei sintomi. Tuttavia, mentre in alcuni gatti la progressione della cardiomiopatia è lenta, in altri può essere piuttosto rapida. Nelle fasi avanzate, i sintomi evidenti possono essere difficoltà respiratorie, stanchezza e paralisi degli arti, soprattutto quelli posteriori. I primi segni della malattia cardiaca possono essere rilevati durante un esame clinico dal veterinario, prima dell’insorgenza di qualsiasi segno evidente. Questo è uno dei motivi per cui ogni gatto dovrebbe essere controllato almeno una volta all’anno da un veterinario (e idealmente più spesso nei gatti più anziani). I primi segnali di allarme che il veterinario potrebbe rilevare includono alterazioni nell’auscultazione del cuore come la presenza di soffio cardiaco o alterazioni del ritmo cardiaco. Raramente, l’unico sintomo che si verifica può essere la morte improvvisa. Purtroppo però bisogna anche sapere che molto spesso tale patologia non da’ nemmeno alterazioni alla visita clinica, per cui l’unico modo di diagnosticarla, è effettuando una ecografia al cuore, detta ecocardiografia.

Quali sono le maggiori complicazioni?

Le complicazioni più comuni della cardiomiopatia ipertrofica sono l’insufficienza cardiaca e il tromboembolismo arterioso.

Insufficienza cardiaca

Avviene quando la funzione cardiaca è significativamente compromessa dalla cardiomiopatia. I sintomi più comuni sono difficoltà respiratoria (dispnea) e/o respiro accelerato (tachipnea). Questi sono generalmente causati da un accumulo di liquido nella cavità toracica attorno ai polmoni (chiamato versamento pleurico) o da un accumulo di liquido all’interno dei polmoni stessi (chiamato edema polmonare). Un altro sintomo precoce di insufficienza cardiaca è la ridotta capacità di esercizio fisico. Questo sintomo è molto difficile da rilevare e può presentarsi come un aumento del tempo in cui il gatto passa a riposare o dormire.

Tromboembolismo arterioso

Durante questa complicazione un trombo (coagulo di sangue) può svilupparsi all’interno di una delle camere cardiache (di solito l’atrio sinistro). Esso è inizialmente attaccato alla parete del cuore, ma può staccarsi ed essere trasportato nel sangue. Un trombo che si sposta nella circolazione sanguigna è chiamato embolo, da cui il termine “tromboembolismo”. Una volta in circolo, questi emboli possono depositarsi nelle piccole arterie e ostruire il flusso di sangue nelle regioni varie del corpo. Sebbene ciò possa accadere in diversi siti, si verifica più comunemente nel punto in cui l’aorta si divide per fornire sangue alle zampe posteriori. Questa complicanza causa un’improvvisa insorgenza di paralisi di una o entrambe le zampe posteriori, con forte dolore e notevole disagio da parte del gatto.

Come diagnosticarla?

L’ecocardiografia è la metodica per eccellenza per diagnosticare la cardiomiopatia ipertrofica e qualsiasi altra patologia cardiaca. Consente infatti di valutare le dimensioni interne del cuore, lo spessore della parete e la contrattilità del cuore. Anche se una piccola area di pelo di solito deve essere rasata per eseguire tale esame, la procedura non è invasiva o dolorosa e quindi può essere eseguita nella maggior parte dei gatti senza sedazione o anestesia.
E’ consigliata prima di ogni sedazione o anestesia per valutare il rischio anestesiologico, in seguito alla presenza di soffio o alterazioni del ritmo cardiaco oppure se il gatto presenta sintomi riferibili ad una cardiomiopatia. Inoltre, poiché la cardiomiopatia ipertrofica può non dare alcun sintomo ed è molto comune nel gatto, è consigliato eseguire uno screening ecocardiografico annuale a tutti i gatti dai 5-6 anni in poi.

Elettrocardiogramma: è una traccia elettrica dell’attività del cuore ed è molto utile per la rilevazione dei disturbi del ritmo cardiaco, che possono accompagnare la cardiomiopatia ipertrofica.

Studio radiografico del torace: è utile per mostrare i cambiamenti nella forma e nelle dimensioni complessive del cuore e per rilevare un accumulo di liquido (edema polmonare o versamento pleurico). Inoltre la ripetizione delle radiografie può anche consentire il monitoraggio dell’efficacia del trattamento dell’insufficienza cardiaca.

Qual è il trattamento?

Il trattamento dipende dalla fase della malattia.
In caso di cardiomiopatia lieve, molto spesso non è necessario nessun trattamento. Con l’aggravarsi della patologia può essere necessaria l’amministrazione di farmaci anticoagulanti o diuretici. Il trattamento tuttavia non determina la cura della patologia cardiaca, ma aiuta a tenere sotto controllo i sintomi e migliorare la qualità di vita del nostro gatto.

Micosi nei cani e nei gatti: cosa sono, come si diagnosticano e curano le infezioni da funghi

I nostri amici cani o gatti possono essere colpiti da micosi, ossia infezioni causate da funghi.

Sono patologie abbastanza comuni, al tempo stesso fastidiose. Cerchiamo quindi di capire meglio cosa sono, come si curano e soprattutto come si prevengono le micosi che minacciano il loro benessere.

Le micosi più comuni in cani e gatti: dermatofitosi

Le dermatofitosi sono infezioni causate da particolari tipi di funghi definiti cheratinolitici e cheratinofili ovvero che attaccano le strutture costituite da cheratina come il pelo e le unghie.

In base all’ospite principale, e di conseguenza dalla fonte di infezione, i dermatofiti possono essere classificati come

  • zoofili: trasmessi dagli animali
  • geofili: trasmessi dal terreno
  • antropofili: trasmessi dalle persone

È importante sapere che non necessariamente un dermatofita zoofilo avrà come unico ospite un animale. Infatti accade spesso che gli animali trasmettano funghi zoofili alle persone e, viceversa, sia un proprietario infetto a passare i funghi antropofili agli animali domestici attraverso il contatto diretto.

Tra i funghi maggiormente osservati e tipizzati troviamo:

  • Microsporum canis: da solo causa circa il 90% delle infezioni, è un fungo zoofilo e colpisce più frequentemente il gatto
  • Trichophyton mentagrophytes: il principale responsabile di dermatofitosi nella cavia e nel coniglio
  • Micropsorum gypseum: il più frequente fungo geofilo che infesta cani e gatti che vengono a contatto con la terra in cui vive
  • Trichophyton erinacei: principale agente infettivo del riccio.

Come si trasmettono le micosi

I funghi di cui abbiamo parlato si trasmettono quasi sempre per contatto diretto con un animale infetto. Più raro, ma comunque possibile, che la trasmissione avvenga attraverso i peli infetti che vengono liberati nell’ambiente in cui vive (contatto con superfici, utensili, indumenti, cucce, coperte…).

Quando l’animale entra in contatto con il fungo, questo inizia a penetrare all’interno del fusto pilifero fino a raggiungere il bulbo pilifero.

Una volta in corso l’infezione causa un quadro clinico più o meno grave a seconda di molti fattori, come lo stato generale dell’animale, la sua risposta immunitaria, la presenza di malattie concomitanti, l’età, la razza.

Quadri clinici

Le micosi nei cani

Nel cane osserviamo infezioni da dermatofiti il più delle volte in cuccioli, randagi/trovatelli e cani che sono venuti a contatto con gattini, solitamente di nuova introduzione.

Le lesioni possono avere diversi aspetti, comparire in numerosi distretti corporei e in numero più o meno alto a seconda del patogeno e della via di trasmissione.

Le lesioni si presentano in molti casi come ipotricotiche o alopeciche: vuol dire che si nota la mancanza, parziale o totale del pelo. Spesso hanno forma circolare e presentano scaglie o croste in quantità variabile, più o meno iperemiche; possono anche confluire e dare origine ad estese aree dove il pelo è mancante o molto corto.

Quando invece il fungo riesce a penetrare più in profondità, fino al derma, è possibile che si formi un kerion dermatofitico ovvero una lesione nodulare, spesso eritematosa, alopecica e crostosa. In questo caso se si rimuove la crosta si vedono dei fori multipli sulla superficie del kerion, tragitti fistolosi da cui spesso fuoriesce materiale purulento.

Le micosi nel gatto

Il gatto affetto da dermatofitosi è tipicamente un gattino trovatello o un gatto venuto in contatto con un gattino di nuova introduzione.

Le lesioni, come abbiamo già detto per quanto riguarda le micosi che colpiscono i cani, possono essere anche molto diverse per estensione e gravità. Più spesso si notano aree alopeciche o ipotricotiche circolari, spesso ricoperte da croste grigiastre oppure soltanto delle aree dove il pelo è solamente più corto rispetto agli altri distretti corporei.

I gatti che contraggono queste micosi di solito non soffrono di particolare prurito o fastidio a livello delle aree infette, ma come sempre esistono delle eccezioni.

In alcune razze predisposte e più sensibili ai dermatofiti, ad esempio i Persiani, l’infezione si manifesta con sintomi decisamente più importanti:

  • desquamazione
  • manicotti pilari, cioè materiale cheratinico o cherato-sebaceo che avviluppa il singolo pelo o un gruppo di peli
  • collaretti epidermici, ossia lesioni circolari sulla cui porzione perimetrale sono presenti delle piccole croste/forfora

Nel gatto, al contrario del cane, il kerion dermatofitico è raro. Possono invece occasionalmente formarsi degli pseudomicetomi: noduli dermici che possono fistolizzare all’esterno.

Come si diagnosticano le micosi di cani e gatti

È raro che le lesioni cutanee abbiano un aspetto così caratteristico da permettere una diagnosi certa, senza ulteriori approfondimenti. Questo è il motivo per cui nella quasi totalità dei casi è necessario eseguire test di laboratorio che ci aiutino a confermare la diagnosi clinica.

L’iter diagnostico si svolge presso il nostro laboratorio attraverso successivi step. Si comincia con i test di screening (lampada di Wood, esame tricoscopico del pelo), e quindi si passa ad esami che ci aiutano ad identificare il fungo a livello microscopico e per isolarlo in terreno di coltura.

Lampada di Wood

La lampada di Wood emette una luce ultravioletta con una lunghezza d’onda tale per cui alcuni dermatofiti (tra cui 50-70% dei Microsporum) emettono fluorescenza in vivo, cioè direttamente sull’animale.

Gli animali positivi mostrano una fluorescenza verde mela brillante sui peli. Le croste e i residui di farmaci topici possono mostrare una debole colorazione giallo-verdastra. Le scaglie cutanee e le fibre spesso hanno una rifrangenza bianca o bluastra.

Il ricorso alla lampada di Wood è un approccio molto utile nel gatto, specie nella quelli il 95% delle infezioni sono sostenute da M.Canis; non è di solito altrettanto utile per le micosi dei cani.

L’esame tricoscopico

Per questo esame occorre prevelevare alcuni peli (con una pinzetta o un pezzo di nastro adesivo). Possiamo così posizionarli su vetrino in presenza di una piccola goccia di olio minerale e/o colorante.

fusti vengono osservati al microscopio a grande e piccolo ingrandimento per esaminare le aree di interesse maggiore. Se è in corso una dermatofitosi si possono vedere peli rotti, fratturati e piccole spore che appaiono come bolle sulla superficie esterna del pelo, o poste a circondarne il fusto.

Grazie all’esame citologico riusciamo spesso a verificare la presenza dei funghi ma non a dargli un “nome e cognome”. Per questo motivo e nel caso in cui l’esame citologico risultasse negativo per la presenza di elementi fungini, ma con forte sospetto clinico di lesione dermatofitica, è importante effettuare una coltura fungina.

La coltura fungina

Per questo test preleviamo dei campioni di materiale cutaneo (peli, squame, croste) dalla lesione e li poniamo in un terreno di coltura o agar. Questo contiene sostanze nutritive che permetteranno ai dermatofiti di crescere.

Il primo segno della loro presenza è il “viraggio” di colore dell’agar. I dermatofiti infatti utilizzano le proteine del terreno determinando un passaggio di colore del terreno di coltura dal giallo al rosso. Successivamente possono formarsi delle vere e proprie colonie.

Passata generalmente una settimana o 10 giorni, se il terreno è precocemente virato e sono nate le colonie vuol dire che il campione è positivo alla presenza di dermatofiti.

Per confermare l’avvenuta crescita dei funghi patogeni occorre osservare le colonie macroscopicamente e miscroscopicamente.

Osservazione macroscopica

Riguardo a quello che siamo in grado di vedere a occhio nudo le colonie possono differire per aspetto e colore. Già queste due caratteristiche possono indirizzarci verso un tipo di dermatofita piuttosto che altri:

  • Microsporum e tricophyton: sono le colonie dei dermatofiti più frequenti, si distinguono per il colore, bianco nella parte superiore e giallo bruno in quella inferiore
  • M. canis: ha un aspetto cotonoso e ben delimitato
  • T. mentagrophytes: appare più polveroso, con raggiature
  • Colonie di colore diverso dal bianco (verde, grigio) o bianco neve sotto e sopra: non appartengono a specie patogene e sono quindi da considerarsi contaminanti.

Osservazione al microscopio

Da colonie nate da 5 giorni o più si possono eseguire prelievi per l’identificazione microscopica. Il prelievo si esegue premendo delicatamente un nastro adesivo sulla colonia, che viene poi posto su un vetrino da microscopio sul quale era depositata posta una goccia di colorante specifico.

Al microscopio è possibile identificare ife settate, micro e macroconidi. I macroconidi sono tipici e caratteristici nel Microscoporum in cui si presentano tipicamente fusiformi con pareti settate e più o meno spesse; i Tricophyton si caratterizzano invece dalla presenza di ife a spirale.

Può succedere occasionalmente che i macroconidi risultino assenti nelle colonie. Questo può verificarsi o perché la coltura è ancora troppo “giovane”, oppure perchè il ceppo è scarsamente “sporulante” e in questo caso i macroconidi possono non venir prodotti neanche col passare del tempo.

In queste evenienze, seppur rare, suggeriamo di identificare il dermatofita con tecniche molecolari in laboratori esterni.

La terapia per le micosi

La terapia si basa sia sull’utilizzo di prodotti topici (in particolare shampoo e spugnature) sia sull’utilizzo di antimicotici somministrati per via orale per molte settimane o addirittura mesi.

Se le micosi interessano cani e gatti a pelo lungo spesso si consiglia la tosatura del pelo in modo da migliorare l’applicazione dei prodotti antimicotici topici e diminuire il rischio di contaminazione ambientale.

Di fondamentale importanza è poi la decontaminazione ambientale: per farla consigliamo un il lavaggio accurato con candeggina di tutti gli strumenti venuti in contatto con il cane infetto così come la pulizia dell’ambiente in cui l’animale infetto vive usando di aspirapolvere, candeggina e presidi contenenti antifungini.

Anche se si tratta ovviamente di una circostanza ben poco piacevole come diciamo spesso il medico veterinario in questi casi è davvero il miglior alleato per guidarti nell’individuazione della patologia e nel percorso di cura. In Clinica abbiamo la fortuna di poter contare su personale con grande esperienza nel campo della dermatologia veterinaria e di un laboratorio di analisi interno in grado di poterci sostenere in tutto il percorso di diagnosi. Questo ci permette di poterci occupare delle micosi di cani e gatti in maniera completa e di far recuperare ai tuoi amici una condizione di completo benessere.

Accompagnare all’accoppiamento il proprio cane femmina

Chi si trova ad avere come amica a quattro zampe un cane, in questo caso particolare una femmina, spesso si trova a valutare, e magari a scegliere per lei, le opzioni dell’accoppiamento e quindi della gravidanza.

All’origine di questa decisione ci sono motivazioni diverse:‌ può essere il desiderio di accogliere un nuovo cucciolo, o di avviare un allevamento amatoriale, oppure semplicemente la volontà di condividere questa esperienza con il proprio cane e con la propria famiglia.

L’arrivo di una cucciolata, però, è un risultato meno scontato da ottenere di quanto molti proprietari possano immaginare. In questo, così come in altri momenti delicati della vita dei nostri amici animali, il veterinario mantiene un ruolo centrale, ed è certamente la miglior fonte di informazioni e di indicazioni sul da farsi.

Quali sono allora i passi da compiere per i proprietari che desiderano accompagnare all’accoppiamento la propria cagna? Abbiamo provato a fare un quadro il più chiaro possibile di cosa comporti intraprendere questo percorso, da un punto di vista medico e pratico.

Valutazioni che precedono la preparazione all’accoppiamento

Prima di avviare all’accoppiamento una femmina di cane è molto importante, per tutelare la sua salute, porsi una serie di domande

Qual è l’età giusta di un cane per l’accoppiamento?

È importante non fare accoppiare i cani troppo precocemente, prima che abbiano avuto un completo sviluppo somatico. Come indicazione generale l’accoppiamento non è mai indicato prima dei diciotto mesi o del terzo calore. Io consiglierei i due anni come età minima corretta.
D’altro canto le “fattrici” (così vengono chiamate le femmine da riproduzione nel settore dell’allevamento canino) non devono neppure essere cani troppo avanti con l’età. Dal punto di vista medico il consiglio è di non fare accoppiare cani oltre i sei anni di età. Dopo i sette anni è necessario ottenere dal veterinario un certificato di idoneità alla riproduzione.

Ci sono dei problemi per l’accoppiamento legati alla taglia?

Differenti taglie possono comportare differenti tipi di rischio nell’affrontare una gravidanza. In particolare taglie molto piccole, o animali sotto taglia, possono talvolta ad andare incontro a distocie (problemi di parto). Per prevenire questo tipo di difficoltà è importante porre attenzione nella scelta del maschio: una differenza di taglia importante può aumentare i rischi di parto.

Ci sono attenzioni particolari per l’accoppiamento di una cagnetta di razza?

Prima di avviare alla riproduzione un soggetto di razza è molto importante valutare la sua salute fisica e/o il suo corredo genetico: queste precauzioni servono a prevenire le patologie di razza e quindi la loro diffusione ai cuccioli.
La patologia ereditaria più conosciuta che affligge i cani di razza è la displasia dell’anca. Non bisogna dimenticare però che ne esistono moltissime altre ereditabili, dai difetti cardiaci a quelli oculari. Inutile poi ricordare che va evitato l’accoppiamento tra consanguinei per l’alta possibilità di manifestarsi di alcuni difetti genetici.

Quante volte dovrebbe partorire una femmina?

Nel suo codice l’ENCI identifica un numero massimo di cinque gravidanze per una cagna nell’intera vita. Le gravidanze inoltre è bene siano intervallate da 12 mesi di riposo. Questo consente alla madre di recuperare uno stato fisico ottimale.

Conoscere il ciclo estrale migliora le possibilità di successo dell’accoppiamento

Abbiamo visto quindi quali sono i fattori che riguardano le condizioni generali e di salute del cane da valutare con attenzione prima che si possa avviare con serenità all’accoppiamento.

Un altro elemento di cui tenere conto è la scelta di un maschio adatto alla riproduzione: è consigliabile infatti evitare soggetti troppo giovani per la loro scarsa esperienza/capacità nella monta.

Una volta compiuti questi passaggi è il momento di rivolgersi al veterinario, che può dare un aiuto prezioso nell’individuare il momento esatto del periodo fertile.

Per farlo ovviamente occorre conoscere approfonditamente il ciclo estrale della cagna. Questo perché i giorni a disposizione per ottenere una gravidanza sono soltanto 4-5 al massimo!

Ecco come funziona il ciclo estrale

Il ciclo estrale della cagna può essere suddiviso in quattro fasi:

  • L’anaestro: fra tutti è il periodo più lungo. Si tratta infatti di un periodo di circa cinque-sei mesi nella quale possiamo considerare l’apparato riproduttore femminile in una fase di “stand by”. A differenza dell’anaestro le altre tre fasi si susseguono molto più rapidamente e sono caratteristiche della fase che attiva la fertilità della cagna. Dal punto di vista clinico corrispondono alla manifestazione del calore ed al suo ritorno successivo alla fase di anaestro.
  • Proestro: nel corso di questa fase la femmina, sulla spinta di variazioni ormonali, manifesta cambiamenti visibili. Tra questi si possono notare turgore ed ingrandimento della vulva, perdite ematiche e cambiamenti comportamentali (attrazione verso il maschio ma con rifiuto dell’accoppiamento, aumento della marcatura urinaria, vagabondaggio). Questa è la fase avviene in cui si verifica il picco della concentrazione degli estrogeni.
  • Estro: per quanto riguarda gli ormoni questa fase vede in sequenza il calo improvviso degli estrogeni ed il picco dell’ormone LH, che porta all’ovulazione. A due-tre giorni da questo picco avviene l’ovulazione e comincia a crescere esponenzialmente la concentrazione di progesterone. Se si sottopone in questo momento la cagna a citologia vaginale noteremo che l’epitelio vaginale appare cheratinizzato alla microscopia. È in questo momento che, anche dal punto di vista clinico, la cagna accetta l’accoppiamento: invita il maschio spostando la coda ed inarcando il dorso.
  • Fertilità: è un periodo molto breve ed si verifica da 2 a 5 giorni dopo l’ovulazione. In media avviene 12 giorni dopo il proestro, ma può cadere anche in un periodo variabile tra i 5 ed i 25 giorni successivi.
  • Diestro: è una fase caratterizzata dal calo del progesterone e dal ritorno graduale di tutte le componenti modificate allo stato di anaestro.

Cosa fare perché l’accoppiamento abbia successo?

Con un intervallo di tempo così ridotto com’è possibile realizzare un accoppiamento che conduca alla gravidanza della nostra cagnolina?

Se i proprietari posseggono sia il cane maschio che la femmina è molto probabile che ci troviamo di fronte ad un falso problema: basterà dar corso ai processi naturali e lasciare che “facciano da soli”.

Di solito in questi casi i proprietari, al contrario, si rivolgono al veterinario per avere le indicazioni necessarie ad intercettare il calore e quindi per separare i soggetti al momento opportuno, in particolare in tutti quei casi in cui non si desidera una gravidanza e gli animali non sono sterilizzati.

Quando invece i proprietari decidono di fare accoppiare la propria cagnetta con il cane di un’altra persona (magari residente fuori regione), oppure pensano di ricorrere ad un’inseminazione artificiale, è fondamentale intercettare questo breve periodo per avere la massima possibilità di successo.

Il ruolo del veterinario nel successo dell’accoppiamento

Il ruolo del veterinario è dunque quello di mettere a disposizione la sua conoscenza e la sua esperienza, e ricavare delle indicazioni utili che si basano sulla valutazione di differenti aspetti:

  • atteggiamento comportamentale
  • manifestazioni cliniche
  • citologia vaginale
  • dosaggi ormonali

Nonostante l’estrema variabilità della presentazione dei calori (talvolta molto manifesti, talvolta silenti), della durata delle fasi del ciclo estrale di ogni soggetto e di molteplici altri fattori, con questa metodologia si riesce ad essere piuttosto precisi.

Se ragioniamo su un piano puramente teorico l’esame ormonale in grado di dare le informazioni più precise, e quindi da consigliare, è quello dell’LH. Il valore di questo ormone infatti indica in maniera esatta il momento dell’ovulazione. Tale parametro però è molto difficile da conservare e viene analizzato in pochissimi laboratori.

Al contrario risulta più pratico calcolare il valore nel sangue del progesterone. Anche in questo caso, se si effettuano due o tre misurazioni al momento opportuno, si riesce ad individuare esattamente il periodo di fertilità.

Non possiamo sapere con precisione quando avviene l’ovulazione, ma siamo certi che il valore del progesterone durante tale evento varia da 4 ad 8 microg/ml, raddoppiando ogni giorno successivo.

A due giorni dall’ovulazione il progesterone dovrebbe pertanto misurare circa 20 microg/ml e la cagna essere fertile per soli altri 2-3 giorni.

Alla misurazione dei valori del progesterone è bene affiancare sempre un prelievo con un “cotton fioc” delle cellule della vagina. Valutarne al microscopio la cheratinizzazione permette infatti di scegliere con più precisione il tempo di esecuzione dei prelievi.

Una volta individuato il periodo fertile è consigliabile fare accoppiare il cane almeno un paio di volte oppure eseguire almeno due inseminazioni artificiali.

La semplicità della procedura è data dal fatto che possiamo eseguire in sede tutti gli esami del caso ed avere risposte praticamente in tempo reale intercettando con sicurezza il breve periodo di fertilità per un accoppiamento di successo.

Il veterinario è un valido alleato in tutto il percorso:‌ dall’accoppiamento, alla gravidanza, all’accoglienza dei cuccioli

Se l’accoppiamento ha successo, per il cane femmina e per tutta la sua famiglia umana si apre una nuova esperienza, altrettanto entusiasmante e delicata. In questa situazione la figura del veterinario risulta ancora fondamentale per gestire in sicurezza la gravidanza prima e il parto poi. Avremo sicuramente l’occasione di approfondire nel blog tutti questi aspetti.

Lo scopo di questo articolo, così come degli altri che mettiamo a disposizione di tutti, è quello di fornire gli strumenti giusti per capire meglio le problematiche legate alla salute dei nostri animali, in questo caso rispetto alla sfera riproduttiva del cane.

Il consiglio che emerge da tutte le considerazioni fatte è quindi l’importanza di affidarsi ad un medico veterinario esperto quando si decide di far vivere al proprio cane l’esperienza dell’accoppiamento. La competenza di un professionista, infatti, permette di valutare insieme il percorso migliore e poter a vivere a pieno questa fantastica esperienza.

La sterilizzazione in laparoscopia: un grande passo avanti per la chirurgia veterinaria

Forse hai già sentito utilizzare il termine laparoscopia per la medicina umana, ma hai mai sentito parlare di sterilizzazione in laparoscopia nel campo della veterinaria?

Si tratta di un’alternativa molto interessante alle metodiche più tradizionali, che riduce ulteriormente dolore e stress per i pazienti che si sottopongono a questa procedura.

Dal momento che per noi il benessere dei pazienti è sempre al primo posto, siamo felici di poter proporre anche questo tipo di soluzione e di spiegare al meglio di cosa si tratta.

Cos’è la laparoscopia e cosa si intende per chirurgia laparoscopica

Laparoscopia è il termine che si usa per descrivere l’esame endoscopico della cavità addominale (o toracica) a fini diagnostici o terapeutici.
La medesima tecnica, che prevede di praticare incisioni molte piccole, si può utilizzare per effettuare non solo esami, ma anche veri e propri interventi.
In molte circostanze può rappresentare un interessante vantaggio rispetto alla tecnica chirurgica convenzionale (detta “open”).

Di solito questa tecnica implica di praticare due-tre piccole incisioni associate, invece di una più ampia caratteristica della chirurgia convenzionale. La laparoscopia, che ormai è standard per moltissime procedure in medicina umana, oggi è sempre più diffusa anche in medicina veterinaria.

Questo tipo di chirurgia, detta anche mini-invasiva, risulta utilissima in molteplici procedure, dalle biopsie di organi addominali e toracici, alla rimozione di neoplasie.

Nonostante quindi i vantaggi di questa tecnica siano importanti anche per diverse altre applicazioni, ad oggi l’uso più diffuso rimane quello legato alle procedure relative alla sterilizzazione della cagna.

La sterilizzazione in laparoscopia

Ricorrere alla chirurgia mini-invasiva per la sterilizzazione presenta importanti vantaggi rispetto alle procedure tradizionali:

  • Gli accessi chirurgici o brecce operatorie, in pratica i tagli che bisogna praticare, sono di piccola dimensione
  • Riduce il dolore delle ferite chirurgiche, facilitando la ripresa post operatoria
  • Richiede meno punti di sutura
  • Permette un ritorno più rapido alla normale attività perché migliora il comfort del paziente e comporta una minor formazione di tessuto cicatriziale

L’intervento di sterilizzazione

Ovariectomia è il termine tecnico per indicare la sterilizzazione della cagna.

Questa procedura è particolarmente consigliata per pazienti di tutte le età, in particolare:

  • medio/grandi (superiori a 15 Kg), dove i vantaggi della tecnica si rendono più apprezzabili
  • in cagne di grande taglia adulte/anziane e in sovrappeso; per queste pazienti la tecnica raggiunge il massimo vantaggio della sua applicazione, dal momento che il tipo di tessuto e la quantità di grasso rendono più difficoltoso l’intervento tradizionale.

Si tratta di un intervento rapido e privo di sanguinamento. Ecco qualche cenno su come si svolge.

Si effettuano tre piccole incisioni cutanee: 5mm o 10mm nei cani più grandi. Attraverso queste incisioni viene inserita la strumentazione in addome: telecamera e pinze capaci sia di tagliare che di coagulare.
La chirurgia viene effettuata osservando tutta la procedura su un monitor medicale. Consiste nella rimozione delle ovaie attraverso gli stessi piccoli fori di accesso della strumentazione (lasciando l’utero in sito).

Coma abbiamo anticipato questa tecnica, rispetto a quella cosiddetta “a cielo aperto”, si caratterizza per una minore dolorabilità, una rapida ripresa e, di conseguenza, dimissione. Gli accessi operatori cutanei normalmente possono chiudersi anche senza l’ausilio di punti.

Proprio come accade per la medicina umana, anche nella medicina veterinaria la procedura della laparoscopia può/deve essere convertita in tecnica tradizionale in caso di imprevisti.

Quanto costa?

Il costo è una variabile di cui non possiamo non tenere conto nel presentare le diverse opzioni possibili per la sterilizzazione. 

costi dell’intervento di laparoscopia sono certamente più elevati e sono risultato del ricorso ad una strumentazione moderna e molto costosa, nonché dell’elevata professionalità di un chirurgo esperto in chirurgia mini-invasiva.

La laparoscopia alla Clinica Veterinaria San Paolo

La nostra clinica nei suoi ormai dieci anni di storia non ha mai smesso di impegnarsi per restare al passo e  offrire un servizio sempre aggiornato dal punto di vista medico.

Proprio in quest’ottica da alcuni mesi abbiamo reso  possibile infatti effettuare questo tipo di intervento presso la Clinica. Proponiamo l’approccio chirurgico laparoscopico a pazienti selezionati. Prima effettuiamo sempre uno screening clinico ed ematologico, valutando insieme al proprietario per ogni specifico animale i benefici di questa procedura rispetto a quella tradizionale.

La chirurgia mini invasiva offre diversi vantaggi. È molto stimolante dal punto di vista tecnico e risulta davvero essenziale per poter effettuare alcune particolari manovre, come quelle concernenti l’accesso alla cavità toracica o parti dell’addome che richiederebbero aperture chirurgiche molto estese per una valutazione.

Per quanto riguarda la sterilizzazione la tecnica classica “Open” resta un’alternativa che permette di accedere a questa procedura ad costo più contenuto (soprattutto per i piccoli animali). Tuttavia la sterilizzazione laparoscopica è una tecnica davvero rapida ed efficace, che merita di essere presa in seria considerazione per i suoi vantaggi, soprattutto negli animali medio/grandi.

L’importanza di un corretto intervento

Su qualsiasi modalità di intervento ricadano la nostra e la vostra scelta ti vogliamo ricordare in ogni caso l’importanza clinica della sterilizzazione per il paziente. Come per tutte le procedure chirurgiche, inoltre, la qualità del risultato non può prescindere da un lavoro di team meticolosamente orchestrato ed eseguito in un ambiente igienico moderno, curato ed attrezzato.

Da sempre ci impegniamo a raggiungere risultati ottimali e di benessere a partire dal percorso anestesiologico in sicurezza, passando per la sterilità e la qualità della procedura, per giungere alla cura meticolosa del post operatorio.

La nostra soddisfazione più grande è quella di vedervi riabbracciare quanto prima i vostri amici come se non fossero mai passati dalla sala operatoria.

La displasia dell’anca nel cane.‌ Prevenire è meglio, curare si può.

La displasia dell’anca è una patologia ereditaria nel cane e colpisce per lo più esemplari geneticamente predisposti di taglia media, grande e gigante.

Resta ad oggi una delle patologie ortopediche più diffuse e questo nonostante il lavoro di selezione dei riproduttori, praticato dagli allevatori ormai da tempo, e l’attenzione crescente dei proprietari verso questa patologia.

Displasia d’anca nel cane: di cosa si tratta

Questa patologia interessa l’articolazione dell’anca, formata dalla testa del femore e dall’acetabolo del bacino che l’accoglie.
Quando l’acetabolo non accoglie più perfettamente la testa del femore i due capi articolari diventano incongruenti (cioè non perfettamente appaiati) e l’anca si dice displasica.
Con il tempo la cartilagine si erode e si vanno a creare alterazioni morfologiche dei capi articolari, con conseguente deposizione di tessuto osteofitario (artrosi).

Il sintomo più evidente e comune della displasia d’anca è la zoppia del paziente causata dal dolore. La displasia nei casi più gravi può esordire dall’età pediatrica oppure manifestarsi nell’età adulta avanzata quando si hanno casi più lievi.

Predisposizione alla displasia

La patologia è determinata da molti fattori, anche se è dimostrato che l’ereditarietà è predisponente, dal momento che vengono colpiti per lo più cani di taglia media, grande e gigante.

Alcune razze risultano essere più predisposte di altre. In particolare:

  • pastore tedesco
  • labrador
  • golden retriever
  • rottweiller
  • bovaro del bernese
  • boxer, il border collie
  • bulldog
  • san bernardo

E molte altre ancora;‌ tuttavia anche i meticci che da adulti raggiungono un peso superiore a 20 kg, in quanto discendenti da cani di razza, possono essere soggetti a displasia d’anca.

Altri fattori possono peggiorare la gravità della patologia su soggetti con una predisposizione genetica:

  • obesità
  • mancanza di un buon tono muscolare
  • mancanza di esercizio
  • attività fisica inadeguata

Quando la displasia può essere scambiata per pigrizia del cane

sintomi che ci mettono in allerta possono insorgere in età pediatrica o durante la vecchiaia: questo dipende dalla gravità della patologia.

In ogni caso il primo sintomo che il proprietario nota e riferisce è una zoppia “a freddo” del posteriore, ossia una difficoltà ad alzarsi e a camminare dopo essere rimasti fermi per qualche ora.
Di solito questo atteggiamento anomalo si esaurisce in pochi minuti, dopodiché il cane torna quello di sempre.

La comparsa di un sintomo così effimero fa sì che in passeggiata il proprietario non noti difetti, ma riporti piuttosto di avere un cane “pigro”, che rifiuta l’attività fisica intensa e/o prolungata, oppure che gioca solo per alcuni minuti e poi si stufa.

Se impegnato in un’attività più intensa del solito (come una passeggiata in montagna) il giorno dopo è stanco, rimane nella cuccia e non vuole uscire.

Proprio perché‌ i primi sintomi non sono facili da interpretare bisogna quindi tenere a mente che la displasia dell’anca è una patologia dolorosa e i comportamenti che abbiamo elencato sono indice di dolore, o fastidio al movimento articolare.

Come ovvio i sintomi variano in base alla gravità della displasia:

  • patologia lieve: il dolore si manifesta soprattutto quando l’articolazione rimane ferma per qualche ora. Ecco la comparsa di zoppia a freddo.
  • patologia moderata/grave: il dolore è costante e presente tutto il giorno. Il cane appare più tranquillo, “pigro”, prova a correre o giocare ma dopo poco deve desistere perché troppo doloroso.

Se quindi la nostra diagnosi arriva in una fase precoce possiamo prevenire l’aggravarsi del dolore articolare e garantire al paziente una qualità di vita migliore.

Diagnosi della displasia: precoce è meglio!

Per diagnosticare precocemente la displasia d’anca sono necessari:

  • una prima visita ortopedica intorno ai 4 mesi di età
  • in seguito alla visita uno studio radiografico completo in sedazione. La sedazione è indispensabile per la precisione del posizionamento e per eseguire test diagnostici specifici

Lo studio radiografico prevede diverse proiezioni; dalle radiografie ottenute si estrapolano degli indici che ci rivelano il grado di lassità articolare, cioè quanto la testa del femore si allontana dall’acetabolo. Inoltre vengono esaminati accuratamente i profili articolari per valutare se è già presente rimodellamento dei capi articolari (alterazione del profilo dell’articolazione), elemento che ci indica una  evoluzione negativa della patologia.

In base allo studio radiografico precoce si può esprimere un giudizio clinico sulla patologia e definirla di grado lieve, moderato o grave.

Arrivare presto alla diagnosi è di grande importanza per il benessere del cane.

Se infatti arriviamo a supporre che la patologia possa avere un’evoluzione grave possiamo intervenire con la chirurgia quando l’apparato scheletrico è ancora in accrescimento. In questo modo riusciamo a limitare i danni articolari nell’età adulta.

Se il cane ha già superato l’età della diagnosi precoce (5-6 mesi) e sospettiamo che possa soffrire di displasia, è sempre consigliata una visita ortopedica seguita da uno studio radiografico in sedazione. Anche in questo caso la sedazione è importante, non tanto per la precisione del posizionamento, ma perché molto probabilmente il cane avrà dolore e muovendosi può rendere impossibile eseguire il test in maniera corretta.

Un esame che non ha finalità diagnostica:‌ lo studio radiografico ufficiale

Lo studio radiografico ufficiale non nasce per fare diagnosi di displasia d’anca, ma serve a certificare sul pedigree il grado di displasia del cane.
Non è obbligatorio, ma spesso è richiesto in caso di attività sportiva, manifestazioni agonistiche, oppure per far riprodurre il proprio animale.

Lo studio radiografico ufficiale può essere eseguito a partire dai 12 mesi di età per tutte le razze, tranne alcune razze giganti per le quali l’età minima dello studio è stata posticipata a 15 o 18 mesi.

Viene eseguito sempre in sedazione, le radiografie vengono inviate, insieme alla documentazione del cane e al pedigree, ad una centrale di lettura che definirà il grado di displasia:

  • A: nessun segno di displasia;
  • B: lieve incongruenza articolare;
  • C: leggera displasia d’anca, moderata incongruenza articolare;
  • D: media displasia d’anca, grave incongruenza articolare;
  • E: grave displasia d’anca, marcate modificazioni dei capi articolari.

Come si tratta il cane affetto da displasia

La diagnosi di displasia d’anca non significa una condanna a vita per il nostro animale.

Esistono diversi tipi di trattamento che si possono intraprendere e che variano a seconda dell’età, dello stato clinico generale e della gravità della patologia.

Possiamo dividere questi trattamenti in due categorie:‌ quelli chirurgici, che servono a ridurre o a eliminare il problema, e la terapia conservativa, che aiuta il paziente, diminuisce il dolore percepito e lo stato d’infiammazione.

Il trattamento chirurgico della displasia

In base alla gravità del processo patologico e alle condizioni particolari del paziente (età, sintomatologia e stato generale) possiamo ricorrere a trattamenti chirurgici preventivi, sostitutivi e palliativi.

  • Preventivi:
    I trattamenti preventivi vengono presi in considerazione in base ai risultati ottenuti dallo studio radiografico e consentono di diminuire la comparsa di danni irreversibili a carico dell’articolazione o di rallentare nel tempo la progressione della patologia. Sono trattamenti preventivi
    _ Sinfisiodesi pubica: chirurgia poco invasiva che si esegue solo in animali molto giovani (generalmente entro i 4 mesi) e solo in caso di forme lievi.
    – TPO (Triplice Osteotomia Pelvica) e DPO (Duplice Osteotomia Pelvica): osteotomie correttive di bacino, cioè interventi più invasivi del precedente e prevedono un’età massima del paziente di circa 6 mesi. Queste chirurgie sono adatte a forme lievi e moderate di displasia in pazienti asintomatici.
  • Sostitutivi
    Ad oggi l’unico trattamento sostitutivo in caso di displasia è la protesi totale d’anca. Consiste nella sostituzione della testa del femore e dell’acetabolo con elementi protesici che ristabiliscono la completa funzionalità articolare. Questa chirurgia rimuove completamente il dolore articolare e migliora nettamente la qualità di vita del paziente. La protesi d’anca viene suggerita in pazienti giovani con forme gravi o in pazienti adulti o anziani con artrosi coxo-femorale.
  • Palliativi
    Questi trattamenti puntano a ridurre il dolore articolare senza però ripristinarne la funzionalità. Con l’aumentare delle tecniche chirurgiche preventive e sostitutive e con la maggior sensibilizzazione dei proprietari verso questa patologia, le chirurgie palliative vengono prese sempre meno in considerazione. Tra queste si ricorda l’ostectomia del collo e testa femorale.

Terapia conservativa

La terapia conservativa consiste in un insieme di trattamenti, farmacologici e non, che mira a ridurre o rallentare l’insorgenza di artrosi, diminuire l’infiammazione e il dolore articolare.

Questo tipo di percorso viene consigliato in pazienti giovani con displasia di grado lieve o in adulti o anziani con artrosi che non possono essere sottoposti a protesi d’anca.

Nella terapia conservativa la gestione del peso è fondamentale. In pazienti obesi o sovrappeso il danno articolare dovuto all’incongruenza dei capi articolari è maggiore e quindi la patologia avanzerà più velocemente. Altrettanto importante è il mantenimento di un buon tono muscolare attraverso un’attività fisica controllata come passeggiate lunghe, piccole corse o nuoto e praticata con costanza. Sono sempre da evitare le attività che prevedono salti o traumi in quanto possono esordire in microtraumi cartilaginei che peggiorano il quadro infiammatorio e accelerano la patologia.

Il trattamento fisioterapico è spesso consigliato, in quanto, specialisti del settore possono studiare il singolo caso e attraverso attività fisica controllata o attrezzature specialistiche riducono il quadro infiammatorio e migliorano il tono muscolare.

Nella terapia conservativa in supporto alla gestione del peso e al mantenimento del tono muscolare si accompagnano armaci antinfiammatori (FANS) e/o veri e propri antidolorifici per il trattamento del dolore e fitoterapici e nutraceutici per preservare l’integrità della cartilagine.

Il benessere dei pazienti è il nostro primo obiettivo

Se è importante saper scegliere la giusta terapia per ogni stadio della displasia, ancora più importante è riuscire, quando possibile, a prevenire le sue manifestazioni più estreme.

La prevenzione, infatti, è l’unico strumento a cui possiamo affidarci per evitare al nostro cane dolore costante e danni permanenti alle articolazioni.

Proprio perché siamo consapevoli dell’importanza di un percorso di cura dedicato alla displasia abbiamo raccolto tutte le prestazioni utili al benessere dei pazienti a rischio in un piano di salute dedicato. Così sarà ancora più semplice prenderti cura al meglio del tuo amico a quattro zampe, garantirgli una vita attiva senza rinunciare alla felicità di condividere corse e giochi.

Filaria e filariosi:‌ i rischi per i nostri cani (e non solo) e l’importanza della prevenzione

Forse hai sentito parlare, magari al parco da qualcuno preoccupato per il proprio cane, dei cosiddetti “vermi del cuore”: si tratta di un parassita, noto come Filaria, che può causare la filariosi, una patologia molto seria.
Purtroppo questo parassita arriva a infestare i nostri amici, soprattutto cani, attraverso un evento banale come la puntura di zanzara. Quando la primavera si fa strada e le punture d’insetto diventano più frequenti è importante quindi proteggere i nostri cani, ma anche gatti e furetti.
Per sapere come e scoprire nel dettaglio il ciclo di vita di questo parassita seguici in questo articolo che abbiamo redatto per sgombrare il campo da dubbi e aiutarti a prenderti cura al meglio dei tuoi animali

Filaria e filariosi cardiopolmonare: di cosa si tratta

La filariosi cardiopolmonare è una patologia parassitaria che può colpire i nostri animali domestici, oltre ad alcune specie di animali selvatici .
​Più spesso vengono infestati i cani, ma anche i gatti ed i furetti possono essere vittime di questa importante malattia.
L’infestazione è causata da un nematode (verme tondo), ovvero la Dirofilaria Immitis, più comunemente nota come “Filaria”. Le larve di questo parassita vengono trasmesse da un individuo ad un altro tramite un vettore (la zanzara), che le immette nel circolo sanguigno dei nostri animali.
Andiamo a vedere nel dettaglio cosa succede

Il ciclo vitale della Filaria

Il parassita: la filaria

La Dirofilaria Immitis, nella sua forma adulta detta Macrofilaria, è un verme tondo filiforme che può raggiungere anche i 15-30 cm di lunghezza, a seconda che si tratti di esemplari maschili o femminili.

Come la Leishmania (di cui abbiamo già parlato qui ) anche la Filaria è un endoparassita, ovvero ha necessità di compiere il suo ciclo vitale all’interno di ospiti animali. Il ciclo vitale è di tipo indiretto, quindi non può essere trasmessa direttamente da un ospite definitivo ad un altro (ad es. da cane a cane), ma deve svolgere parte della sua crescita, da larva ad esemplare adulto, in un ospite intermedio che fa da vettore: la zanzara.

La zanzara:‌ il vettore della filaria e come avviene l’infestazione

Il parassita adulto abita i grossi vasi sanguigni polmonari e cardiaci dell’ospite definitivo, che, come abbiamo accennato, è quasi sempre un cane, ma può essere anche un gatto o un furetto. Qui dà origine ai sintomi e quindi alla malattia vera e propria, la filariosi.
Non solo: i vermi all’interno dei grossi vasi si accoppiano e producono delle larve. Nel loro primo stadio larvale le MICROFILARIE (o L1) migrano dai grossi vasi ai vasi sanguigni periferici cutanei, arrivando quindi in sostanza molto vicine alla pelle dei loro ospiti. Ed è qui che vengono prelevate dalle zanzare durante il pasto di sangue.

La zanzara prende il nome di ospite intermedio. All’interno delle zanzare, infatti, le larve in stadio L1 maturano e arrivano allo stadio L3. Le larve L3 vengono così iniettate, insieme alla saliva, dalla zanzara in un nuovo ospite definitivo (ad es. un cane).

Le L3 si annidano nel tessuto sottocutaneo del loro ospite definitivo per circa 3 mesi, maturando ancora fino allo stadio L5, per poi entrare nel circolo venoso centrale, arrivare nei grossi vasi polmonari e cardiaci e trasformarsi in parassiti adulti.

Il parassita adulto e la conclusione del ciclo

I parassiti adulti, esemplari maschili e femminili, si accoppieranno per produrre nuove microfilarie einiziare nuovamente il ciclo.
​Il periodo di sviluppo, dall’infestazione della larva L3 alla maturità sessuale del parassita (detto periodo di prepatenza) richiede circa 6 mesi nel cane e 8 nel gatto; una volta adulto il parassita ha una vita media di anche 4-5 anni nel cane e 2-3 nel gatto.

​Dopo la fecondazione, la femmina infatti rilascia nel sistema circolatorio dell’ospite definitivo le microfilarie che possono rimanere in circolo anche per 2 anni, aspettando l’arrivo di un vettore per completare il loro ciclo vitale.

La filaria:‌ un pericolo per cani, ma anche gatti e furetti

Gli ospiti definitivi delle larve della filaria sono soprattutto alcuni dei nostri animali domestici: cane, gatto e furetto.

La filaria nel cane

Il cane è in assoluto l’animale più ricettivo e quindi più soggetto a presentare l’infestazione e la malattia. Rappresenta l’ospite preferito per il parassita; nell’organismo del cane infatti la filaria riesce a compiere l’intero ciclo e a produrre una quantità anche molto alta di microfilarie per continuare il ciclo successivo.

La filaria nelle altre specie

Al contrario il gatto non rappresenta l’ospite ideale per la filaria. La maturazione da L3 ad esemplare adulto viene spesso contrastata efficacemente dal sistema immunitario del gatto, pertanto il parassita non riesce a svolgere il ciclo completo.
Quando questo avviene comunque l’infestazione spesso è sostenuta da pochi esemplari adulti che non sempre sono in grado di produrre microfilarie. La microfilaremia (ovvero la presenza nel circolo periferico di larve L1) è quindi di solito di breve durata e di bassa carica.

Il Furetto presenta una situazione intermedia tra cane e gatto, abbastanza ricettivo, presenta spesso sintomi importanti e molto gravi.

La diffusione della filaria sul territorio

La filariosi cardiopolmonare è diffusa in varie aree del territorio europeo.
​In italia le zone più colpite, dove risulta endemica, sono quelle del Nord Italia situate intorno alla Pianura Padana. La presenza del parassita fu scoperta per la prima volta nel 1626.

Le aree più a rischio sono: Lombardia, Piemonte e Veneto meridionali, Liguria orientale, Toscana centro-settentrionale ed Emilia Romagna, anche se non mancano casi in altre zone della penisola.
Negli ultimi decenni infatti, con l’intensificarsi degli spostamenti degli animali domestici insieme ai loro proprietari, si è assistito ad una maggiore diffusione.

L’azione patogena della filaria

La filariosi cardiopolmonare prende questo nome perché il parassita adulto si stabilisce nei grossi vasi sanguigni polmonari (arterie polmonari per lo più) e, in uno stadio più avanzato, nelle camere cardiache destre dell’ospite.
Il periodo di prepatenza (ovvero il periodo che intercorre dall’infestazione alla maturazione del parassita nel suo stadio adulto) dura circa 6 mesi. In questo periodo il cane non manifesa nessuna sintomatologia.

Trascorsi i 6 mesi il verme adulto può iniziare a causare modificazioni sempre più importanti nell’efficienza del circolo sanguigno: prima a livello polmonare, poi cardiaco, e creare sintomi progressivi sempre più gravi, fino a causare anche la morte del suo ospite.
L’azione patogena che il parassita è in grado di provocare nell’animale che ha infestato è determinata da diversi fattori:

  • Riduzione del flusso di sangue arterioso verso i polmoni per occupazione di spazio nelle arterie polmonari
  • Azione infiammatoria sui vasi sanguigni
  • Formazione di turbolenze del flusso ematico vicino alla valvola cardiaca, con successiva azione emolitica (distruzione di globuli rossi), date dal movimento “a frusta” delle filarie.
  • Tromboembolismi per morte dei parassiti

I sintomi: nel cane…

Il cane può rimanere asintomatico per molto tempo, anche per anni. L’insorgenza della malattia infatti è per lo più di tipo cronico e porta a sintomi progressivi.
La gravità dei sintomi dipende dalla gravità dell’infestazione (quanti parassiti adulti e di che dimensioni sono presenti nel paziente) e dalle dimensioni del paziente stesso (in animali di piccole dimensioni anche infestazioni di minore entità sono in grado di dare sintomi più gravi e a più rapida evoluzione).

Ecco alcuni tra i sintomi causati dalla filariosi che possiamo riscontrare nei nostri cani:

  • Intolleranza all’esercizio ed affanno durante l’attività fisica, calo delle prestazioni (questi sintomi sono più evidenti in cani da lavoro o sottoposti ad intensa attività fisica)
  • Tosse
  • dispnea, cioè difficoltà a respiratore, da lieve a grave
  • Dimagrimento cronico
  • Episodi di sincopi (svenimenti), soprattutto durante o dopo l‘esercizio fisico.
  • Insufficienza cardiaca congestizia destra: patologia cardiaca grave in grado di dare anche ascite (raccolta di liquido in addome) e formazione di edemi periferici
  • Ipertensione polmonare
  • Anemia ed emolisi (rottura dei globuli rossi)
 

…nel gatto e nel furetto

Nel gatto la malattia ha un’incidenza molto inferiore al cane, anche se è comunque possibile che si manifesti.  Per fortuna in molti casi ​il sistema immunitario del gatto è in grado di combattere lo sviluppo delle larve. Quando però il parassita adulto riesce ad arrivare nella localizzazione definitiva, date le ridotte dimensioni delle arterie polmonari e delle camere cardiache del gatto, può dare sintomi anche molto più gravi ed improvvisi.
In genere rimane asintomatica per lungo tempo; può in seguito presentare una sindrome acuta, anche con morte improvvisa, caratterizzata da sintomi respiratori come tosse, dispnea ed emottisi. Il vomito è un altro sintomo molto frequente in questo animale.

Nel Furetto la sintomatologia da Filariosi si presenta spesso come sindrome molto grave. Le ridotte dimensioni dei vasi e del cuore di questo animale lo rendono più velocemente suscettibile all’insorgenza di sintomi gravi quali anoressia, debolezza, tosse, insufficienza cardiaca. Molto spesso può avere un esito letale.

Negli ultimi anni inoltre è stata associata all’infestazione da Dirofilaria Immitis anche l’infezione da Wolbachia, un batterio in grado di facilitare la sopravvivenza delle filarie nei mammiferi e di intensificare i processi infiammatori dati dall’infestazione.

Diagnosi e profilassi della filaria:‌ il valore della prevenzione

Se diagnosticata in tempo la filariosi cardiopolmonare è una patologia che può essere trattata in maniera efficace tramite terapia specifica; in alcuni casi la terapia può durare anche molto a lungo.
Purtroppo in alcuni pazienti i sintomi sono subdoli e ad insorgenza cronica; questo determina il rischio di intervenire quando la malattia è già in fase avanzata e di conseguenza che la terapia abbia minor probabilità di successo.
Per questo la prevenzione è lo strumento più efficace per proteggere la salute dei nostri amici a quattro zampe. Andiamo a vedere in cosa consiste la profilassi.

La profilassi preventiva della filariosi

Per una corretta prevenzione è necessario combinare un’azione di prevenzione dal morso del vettore ed un’azione di profilassi contro le larve che potrebbero essere già state iniettate.

  • La prevenzione della puntura di insetti, tra cui la zanzara, si ottiene con il ricorso a prodotti repellenti in grado di tenere lontane le zanzare ed altri artropodi (spot on, collari, spry). Esistono anche repellenti a base di oli essenziali naturali (come l’olio di Neem).
  • Profilassi: evita che le eventuali larve iniettate nel circolo possano svilupparsi a parassita adulto. Per una corretta profilassi possiamo scegliere tra più soluzioni:
     ​​- somministrare un prodotto per bocca o applicare uno spot-on a base di Ivermectina /Milbemicina Ossima/ Moxidectina/ Selamectina/ una volta al mese nel periodo di maggior attività del vettore (da marzo ad Ottobre)
    – somministrare​ un prodotto iniettabile long-acting a base di Moxidectina che protegge i nostri animali per tutto l’anno

Entrambi i trattamenti devono essere effettuati preferibilmente nei mesi primaverili.
Non tutti i piani terapeutici sono possibili, validi e sicuri indistintamente per tutti i tipi di paziente. A seconda della specie, della razza, delle possibilità gestionali, il proprietario viene guidato dal Medico Veterinario per scegliere il piano terapeutico più adatto al proprio animale.
Considerando che i cani infetti potrebbero non mostrare sintomi anche per molti mesi, risulta necessario, prima di iniziare qualsiasi tipo di trattamento profilattico, effettuare dei test diagnostici per escludere una possibile infestazione asintomatica.

Test di screening e diagnosi della filariosi

Tutti i pazienti che effettuano la profilassi per la prima volta devono prima essere sottoposti ad un test di screening
Nelle aree endemiche il consiglio è di effettuare un test di controllo almeno ogni 2 anni, anche se il paziente viene sottoposto a profilassi.
Lo screening consiste in un test rapido ambulatoriale, che si effettuato attraverso un semplice prelievo di sangue.
​Il test rileva se sono presenti gli antigeni di Dirofilaria Immitis circolanti nel sangue, rilasciati dalle femmine adulte del parassita. Sono rilevabili dopo circa 5 mesi dall’infestazione.
A questo può essere associato il test di Knott, che va a valutare invece la presenza di microfilarie nel circolo.


Il paziente può essere sottoposto a profilassi se risulta negativo. Se invece risulta positivo al test bisogna procedere con esami di approfondimento per valutare lo stadio della malattia in atto. (ecocardiografia, radiografie toraciche, esami del sangue ecc).

Scegli di proteggerlo

I medici della clinica sono a tua disposizione per valutare il caso specifico di ogni singolo paziente e a consigliarvi il piano di prevenzione e profilassi più adatto al vostro animale!
La filariosi purtroppo in Piemonte è ancora molto diffusa: proteggere nel modo adeguato i tuoi amici significa anche contribuire ad arrestare la diffusione della malattia.

Microchip per cani, gatti e furetti: come funziona l’Anagrafe Animali d’Affezione

Quando decidiamo di accogliere un animale da compagnia di solito ci impegniamo anzitutto nel preparare un ambiente ideale all’interno della sua nuova casa e ci preoccupiamo di svolgere un check up completo delle sue condizioni di salute.
Di rado pensiamo che è altrettanto importante occuparci di alcune “incombenze” burocratiche per tutelare al meglio il benessere di questo nuovo componente della nostra famiglia. In alcuni casi, come il microchip dei cani, queste pratiche sono addirittura un obbligo.
​Per questo è importante conoscere quali sono le principali pratiche da espletare nei vari momenti che accompagneranno la convivenza con il nostro pet, a chi rivolgersi e perché sono tanto importanti.

Cos’è l’anagrafe degli animali d’affezione

L’Anagrafe degli Animali D’Affezione (ex Anagrafe Canina) è una banca dati che raccoglie le informazioni relative all’identificazione di cani, gatti, furetti e dei loro proprietari.
​Ogni Regione gestisce la propria anagrafe a cui possono accedere soltanto i veterinari operanti sul territorio di competenza della stessa.

Esiste poi l’Anagrafe degli Animali d’Affezione nazionale, in cui confluiscono i dati inviati dalle singole Regioni. Tuttavia i cittadini ed i veterinari “privati” possono consultare questa anagrafe solo per risalire al luogo in cui è stato registrato l’animale. Per avere informazioni riguardo al proprietario occorre rivolgersi all’anagrafe regionale competente.

Per i cani già dal 1991 è obbligatorio registrare all’Anagrafe degli Animali d’Affezione tutti i soggetti presenti sul territorio italiano.
Invece per gatti ed i furetti la registrazione è obbligatoria solo se c’è necessità di condurli all’estero. Altrimenti è possibile effettuare un’iscrizione su base volontaria.

Esistono poi anche le cosiddette “banche dati private” a cui ci si può registrare su base volontaria:

  1. Anagrafe Nazionale Felina realizzata dall’ANMVI
  2. Anagrafe dei Conigli realizzata dall’AAE-Conigli ONLUS

Come si identificano gli animali da compagnia? Il microchip per cani gatti e furetti

Il microchip a partire dal 2004 è l’unico metodo di identificazione riconosciuto.

Cos’è il microchip?

​Si tratta di un dispositivo di materiale inerte (vetro biocompatibile) di dimensioni simili ad un chicco di riso, che viene applicato a livello del sottocute del collo sinistro.
​Prima del 2004 l’identificazione dei cani poteva avvenire anche tramite l’applicazione di un tatuaggio a livello dell’interno coscia (una pratica decisamente più dolorosa).

Il microchip contiene un trasmettitore GPS?

Questa è una delle domande che ci sentiamo porre più di frequente, quindi è importante fare chiarezza. Il microchip NON contiene un dispositivo GPS, ma soltanto un codice a 15 cifre tramite il quale sarà possibile identificare l’animale ed il suo proprietario.

Come viene letto il microchip?

La lettura del microchip può essere effettuata tramite appositi lettori da medici veterinari sia privati sia operanti nelle ASL competenti per territori e dai vigili urbani.

Qual’è la procedura per l’applicazione del microchip ai cani?

Per legge l’applicazione del microchip nei cani deve essere richiesta dal proprietario o dal detentore della cucciolata entro i 60 giorni di vita dei cuccioli.
La pratica può essere effettuata dai medici veterinari del Servizio Veterinario dell’area A dell’ASL competente per ogni singolo territorio oppure da medici veterinari liberi professionisti autorizzati. Il medico veterinario che effettua l’applicazione del microchip provvede alla registrazione presso l’Anagrafe degli Animali d’Affezione e consegna al proprietario il certificato di identificazione.

Qual’è la procedura per l’applicazione del microchip a gatti e furetti?

Per quanto riguarda i gatti ed i furetti la legge non mette vincoli riguardo all’età in cui effettuare identificazione tramite microchip. Per queste specie l’applicazione del microchip si rende obbligatoria solo nel caso in cui si voglia condurre l’animale all’estero ai fini di ottenere il passaporto.

Cosa fare quando si acquisisce un animale da compagnia

Se il nuovo componente della nostra famiglia è già identificato con microchip quello che dobbiamo fare dal punto di vista burocratico rientra in questi tre casi:

  1. Animale identificato nella stessa regione in cui avviene l’acquisizione:
    in questo caso è sufficiente compilare un apposito modulo di cessione con i dati e le firme sia del vecchio sia del nuovo proprietario. Quindi andrà inviato entro 15 giorni all’Anagrafe degli Animali D’Affezione regionale insieme con una copia dei documenti di identità di entrambi i firmatari.
  2. Animale identificato al di fuori della regione in cui risiede l’acquirente:
    in questo caso è necessario inviare all’Anagrafe degli Animali D’Affezione regionale entro 15 giorni dalla data dell’acquisizione un modulo compilato e firmato dal nuovo proprietaerio e da un veterinario. Il modulo deve essere accompagnato dalla copia dei documenti di identità, del certificato di cessione da parte del precedente proprietario e del certificato originale di identificazione (rilasciato dalla precedente ASL).
  3. Animale identificato all’estero:
    un cane che proviene dall’estero deve sempre avere il proprio passaporto, in cui sono riportati il numero di microchip e la vaccinazione contro la rabbia. Quest’ultima deve essere stata effettuata con almeno 21 giorni di anticipo rispetto all’ingresso in Italia.
    Per animali provenienti dai Paesi extra – UE è necessario anche un foglio che attesta la verifica del titolo anticorpale nei confronti della rabbia. Il nuovo proprietario dovrà quindi presentare in Anagrafe degli Animali d’Affezione l’allegato 2, il passaporto e la copia dei documenti di identità.

Vi ricordiamo che sono vietate:

  • la cessione, la vendita ed il passaggio di proprietà di cani non identificati e registrati presso l’Anagrafe degli Animali D’Affezione.
  • la cessione di un cucciolo prima dei 60 giorni di età.

Cosa fare in caso di smarrimento o ritrovamento

In caso di smarrimento se il nostro animale è identificato con microchip bisogna fare una segnalazione al Corpo di Polizia Municipale competente per il comune dove è detenuto solitamente l’animale entro 3 giorni dall’evento.
​Bisogna inoltre compilare un apposito modulo, che può essere inviato anche all’Anagrafe degli Animali d’Affezione. Per quanto riguarda la regione Piemonte la procedura di segnalazione di smarrimento si può effettuare anche attraverso il sito internet dedicato.

Se invece sospettiamo che si tratti di un furto bisogna sporgere denuncia presso una stazione dei Carabinieri ed inviare una copia della stessa all’Anagrafe degli Animali d’Affezione.

Nel caso in cui, invece, in cui ritroviamo un cane vagante siamo obbligati per legge a fare segnalazione al Corpo di Polizia Municipale competente per il Comune in cui è stato ritrovato. In questo caso non è possibile trattenere con sé l’animale. Sarà il personale del Corpo di Polizia Municipale ad occuparsi di contattare gli enti preposti, da cui il proprietario potrà essere contattato in seguito alla lettura del microchip del cane.

Cambio di residenza

Il cambio di residenza, se comporta anche un cambio di domicilio dell’animale da compagnia, deve essere sempre segnalato entro 15 giorni al Servizio Veterinario dell’ASL di competenza, compilando un modulo ed allegando allo stesso una copia dei documenti di identità.

Viaggi all’estero: il microchip per cani gatti e furetti è necessario per ottenere il passaporto

In base ad un Regolamento Europeo del 2013 tutti i cani, i gatti ed i furetti devono essere accompagnati da un apposito passaporto per potere essere condotti all’estero .

Soltanto il Servizio Veterinario dell’ASL può rilasciare questo documento. Per ottenerlo sono necessarie le seguenti pratiche:

  • Identificazione dell’animale tramite microchip ed iscrizione dello stesso nell’Anagrafe degli Animali d’Affezione.
  • Vaccinazione della rabbia dopo aver effettuato l’applicazione del microchip. L’ASL potrà rilasciare il passaporto dopo almeno 21 giorni da tale vaccinazione

Attenzione! Vi sono poi dei requisiti particolari in base allo Stato estero in cui ci si vuole recare. Ad esempio, quasi tutti gli Stati Extra UE richiedono un esame per la titolazione del vaccino contro la rabbia ed alcuni richiedono anche un trattamento antiparassitario specifico poco prima della partenza. Quindi, prima di intraprendere qualsiasi viaggio all’estero, vi consigliamo di informarvi accuratamente delle normative vigenti nello Stato in cui vi state per recare (ad esempio tramite le apposite sezioni presenti sui siti delle ambasciate e dei consolati).

Decesso

Nel momento in cui, purtroppo, si verifichi il decesso di un animale da compagnia regolarmente identificato tramite microchip il proprietario è tenuto ad inoltrarne la segnalazione all’Anagrafe degli Animali d’Affezione entro 15 giorni dall’evento. Tale segnalazione può essere effettuata tramite l’invio di un modulo apposito (allegato 7) oppure, in Piemonte, tramite un apposito sito internet .

Veterinario e anagrafe

Anche nell’identificazione dei nostri animali d’affezione, quindi, nell’applicazione del microchip e nella gestione dei documenti che consentono la loro circolazione il ruolo del medico veterinario è quello di un importante alleato nell’assicurare benessere e serenità. Per qualsiasi informazione riguardo a queste tematiche scrivi alla Clinica.

Il cane può rimanere asintomatico per molto tempo, anche per anni. L’insorgenza della malattia infatti è per lo più di tipo cronico e porta a sintomi progressivi.
La gravità dei sintomi dipende dalla gravità dell’infestazione (quanti parassiti adulti e di che dimensioni sono presenti nel paziente) e dalle dimensioni del paziente stesso (in animali di piccole dimensioni anche infestazioni di minore entità sono in grado di dare sintomi più gravi e a più rapida evoluzione).

Ecco alcuni tra i sintomi causati dalla filariosi che possiamo riscontrare nei nostri cani:

  • Intolleranza all’esercizio ed affanno durante l’attività fisica, calo delle prestazioni (questi sintomi sono più evidenti in cani da lavoro o sottoposti ad intensa attività fisica)
  • Tosse
  • dispnea, cioè difficoltà a respiratore, da lieve a grave
  • Dimagrimento cronico
  • Episodi di sincopi (svenimenti), soprattutto durante o dopo l‘esercizio fisico.
  • Insufficienza cardiaca congestizia destra: patologia cardiaca grave in grado di dare anche ascite (raccolta di liquido in addome) e formazione di edemi periferici
  • Ipertensione polmonare
  • Anemia ed emolisi (rottura dei globuli rossi)
 

Attenzione al cioccolato! per i cani è un alimento molto pericoloso

Cosa si intende per triadite del gatto?

La triadite del gatto è una sindrome molto comune tra i nostri felini domestici ed è caratterizzata dalla concomitante infiammazione di fegato (e/o vie biliari), pancreas e/o intestino.

Dal momento che la sindrome interessa più organi bisogna ricordare che non sempre tutti e tre gli elementi sono coinvolti in egual misura: alcuni soggetti potranno sviluppare un’infiammazione più marcata a livello di fegato ed intestino, altri di pancreas ed intestino.
Solo di rado, invece, abbiamo pancreatite ed epatite insieme, in assenza di un coinvolgimento intestinale.
Di solito la triadite insorge in soggetti adulti – anziani, con un’età compresa tra i 6 e i 9 anni. Invece razza e sesso del gatto sembrano non avere alcun legame con la probabilità che la sindrome si manifesti.

Come si sviluppa la triadite? e perché colpisce soprattutto i gatti?

La triadite colpisce soprattutto il gatto perché, a differenza di quanto avviene ad esempio nei cani, il dotto pancreatico ed il dotto biliare principale (coledoco) nei felini si fondono insieme in un unico canale prima di sbocciare nel duodeno a livello della papilla duodenale.
Questo significa che nel gatto fegato pancreas e intestino hanno stretti rapporti anatomici, che sono all’origine delle altrettanto strette connessioni fisio-patologiche che interessano i tre organi.

Il meccanismo patogenetico della triadite non è univoco. Questo significa che non siamo sicuri di come abbia origine questa sindrome.
Alcuni autori hanno riportato casi di “disfunzione dello sfintere di Oddi” (lo sfintere a livello di papilla duodenale preposto allo svuotamento del contenuto di succhi pancreatici e bile contenuti del dotto): una patologia piuttosto frequente nell’uomo, ma meno comune nei nostri felini.

Molti autori suggeriscono invece che alla base di tutto vi sia un’alterazione della flora microbica intestinale, con conseguente sovracrescita di batteri potenzialmente patogeni e loro successiva ascesa verso pancreas e fegato attraverso la papilla duodenale, in corrispondenza dello sbocco comune.
Questo meccanismo di origine della patologia su base infettiva è possibile, oltre che per via ascendente (risalita dei batteri lungo il tratto gastroenterico), attraverso una traslocazione di batteri attraverso la parete intestinale, facilitata da una sensibilizzazione/suscettibilità della stessa quando colpita da un processo infiammatorio cronico, come avviene in corso di IBD.

La maggior parte degli autori, in ogni caso, è d’accordo nel considerare come causa scatenante principale della triadite una risposta autoimmune che si sviluppa in corso di infiammazione cronica intestinale (IBD), spesso di natura allergica/alimentare, in alcuni casi anche secondaria ad un processo infettivo. Questa infiammazione si estende poi anche a fegato e pancreas, data la stretta correlazione tra i tre distretti.

Qualunque sia la causa catenante, è importante ricordare che uno dei sintomi cardine della triadite, il vomito, è spesso responsabile dell’esacerbazione del processo. L’ aumento della pressione intraduodenale durante i conati, infatti, favorisce il reflusso del contenuto intestinale nel pancreas e nelle vie biliari e instaura un meccanismo a catena.

Quali sono i sintomi più comuni della triadite del gatto? Come riconoscerli?

sintomi più comuni legati alla triadite consistono in una riduzione più o meno marcata dell’ appetito (disoressia/anoressia) con conseguente perdita di peso, senso di nauseavomitoletargiaapatiadisidratazionemantello arruffato (per ridotta attività di self-grooming), diarrea o stipsi, mucose tendenti al giallo (= itteriche), dolore addominale.

Non sempre, nello stesso soggetto, osserviamo tutti questi sintomi contemporaneamente: la combinazione di essi dipende infatti dagli organi coinvolti dalla patologia e dalla gravità di tale coinvolgimento.

Come si emette diagnosi di triadite?

Il primo passo da svolgere in caso di comparsa di uno o più sintomi tra quelli sopra elencati è l’esecuzione di esami del sangue completiesame emocromocitometrico e biochimico completo. Queste indagini consentono spesso di rilevare alcuni parametri al di fuori dei range di riferimento. Per una diagnosi più accurata si ricorre alla diagnostica per immagini: radiografia ed ecografia addominale.

Le alterazioni ematobiochimiche  che più di frequente vengono riscontrate in corso di triadite sono:

  • neutrofilia e/o leucocitosi 
  • anemia non rigenerativa
  • aumento degli enzimi epatici (ALT, AST,ALP, iperbilirubinemia)
  • azotemia
  • ipoalbuminemia
  • alterazione vitamina B12
  • alterazione folati
  • ipocolesterolemia
  • ipoproteinemia
  • iperglicemia (transitoria da stress o legata a diabete mellito concomitante)

Altrettanto frequente è riscontrare disturbi elettrolitici, in particolare ipokaliemia, ipocloremia, iponatriemia. 

Alti livelli di amilasi e lipasi nel gatto, per quanto frequenti in casi di triadite, non sono parametri altamente specifici e diagnostici. Al contrario la Lipasi pancreatica specifica felina (fPLI), se aumentata, è altamente suggestiva di pancreatite.

Un altro possibile indicatore di pancreatite in corso è l’ipocalcemia. Gli studi recenti rilevano che un marcato aumento della lipasi pancreatica specifica felina, associata ad una riduzione altrettanto marcata della calcemia, è un indice prognostico negativo per l’evoluzione della patologia.

Ricordiamo sempre che possono essere presenti, nello stesso individuo, più alterazioni patologiche contemporaneamente, e che queste possono essere più o meno gravi a seconda del grado di gravità di IBD, epatopatia e/o pancreatite concomitanti.

In caso di triadite la radiografia non è quasi mai decisiva per la diagnosi, anche se può fornire alcuni indizi utili.
L’ecografia addominale è invece la tecnica di diagnostica per immagini più utile ed utilizzata. L’ecografia permette di identificare:

  • inspessimenti patologici della parete intestinale o alterazioni della sua stratigrafia in corso di IBD
  • alterazioni della motilità intestinale
  • variazioni dell’ecogenicità di pancreas e fegato
  • presenza di versamento addominale
  • dilatazione del dotto biliare
  • colelitiasi
  • fango biliare
  • aumento di volume e/o arrotondamento dei margini degli organi in questione

Quando la componente infiammatoria intestinale appare preponderante sono indicate altre indagini specialistiche:

  • l’endoscopia intestinale
  • la ricerca di batteri e parassiti specifici dell’apparato gastroenterico (da siero o da feci) attraverso tecniche biomolecolari garantite da laboratori esterni.


La diagnosi definitiva di triadite nel gatto è possibile solo attraverso un’esame istopatologico di pancreas, fegato ed intestino. Questo esame è più invasivo rispetto alle tecniche di cui abbiamo parlato. Per questo viene preso in considerazione raramente e solo nei pazienti clinicamente stabili.
Molte altre patologie del gatto (Peritonite Infettiva Felina, Linfoma intestinale del gatto, Lipidosi epatica o altre Epatopatie e Malattie infettive gastrointestinali) possono determinare segni clinici sovrapponibili a quelli riscontrati in corso di tradite. Quindi occorre sempre considerare tutte queste possibilità tra le diagnosi differenziali, soprattutto nei casi in cui il soggetto risponda poco o per nulla alle terapie mirate alla risoluzione di una sospetta triadite.

Come si gestisce e tratta la triadite del gatto

Il trattamento della triadite richiede, nella maggior parte dei casi, il ricovero del paziente.
Solo in questo modo, infatti, è possibile monitorare il soggetto in maniera costante, somministrare la terapia in maniera adeguata, garantire ad un paziente con poco o nullo appetito un apporto nutrizionale giornaliero sufficiente, valutare l’evoluzione della patologia giorno per giorno.

Nell’animale ospedalizzato è possibile somministrare la terapia farmacologica per via iniettabile, ottimizzando l’assorbimento e quindi l’efficacia dei farmaci impiegati.

La terapia è mirata:

  1. alla gestione di nausea e vomito, attraverso la somministrazione di farmaci antiemetici (maropitant, metoclopramide,..) e gastroprotettori (omeprazolo, sucralfato,..)
  2. alla stimolazione del senso di appetito grazie all’utilizzo di farmaci contro l’anoressia/disoressia ( mirtazapina, ciproeptadina,..)
  3. alla gestione del dolore e dell’infiammazione (FANS, oppioidi,cortisonici..)
  4. all’ utilizzo di antibiotici ad ampio spettro spesso associati ad antibiotici attivi su batteri anaerobi (fluorochinoloni, cefalosporine, metronidazolo, tilosina,..)
  5. all’integrazione di vitamine E, C, B12, taurina, arginina, etc.
  6. all’utilizzo di integratori con funzione epato-protettrice (silimarina, glutatione, S- adenosilmetionina, acido ursodesossicolico)
  7. all’utilizzo di fermenti lattici per ridurre il dismicrobismo intestinale indotto dallo stato patologico e dall’utilizzo di antibiotici e contrastare la diarrea conseguente ad un deficit dell’assorbimento intestinale (prebiotici, probiotici, fermenti lattici ad azione compattante,..)
  8. alla reidratazione del paziente, ripristino degli squilibri elettrolitici e all’allontantanamento dei metaboliti tossici accumulatisi nel letto vascolare conseguenti a processi ossidativi tipici degli stati patologici attraverso la fluidoterapia endovenosa.

Che ruolo ha l’alimentazione nella gestione della sindrome?

Un aspetto da non sottovalutare mai è l’alimentazione: un gatto con triadite difficilmente si alimenta spontaneamente, soprattutto nella fase acuta della malattia, e non è infrequente che l’animale vada incontro ad una carenza energetica e di proteine, condizione che può comportare numerose complicazioni come la riduzione della sintesi e della riparazione tissutale, un alterato metabolismo dei farmaci, una diminuzione dell’efficienza del sistema immunitario e la sarcopenia.

Inoltre i gatti non dovrebbero mai rimanere a digiuno per più di tre giorni: il rischio in questo caso è l’insorgenza di una degenerazione del fegato molto difficile da trattare, la cosiddetta lipidosi epatica. Nei casi di anoressia persistente bisognerebbe intraprendere un’alimentazione enterale attraverso l’utilizzo di sondini rino-esofagei o rino-gastrici, attraverso cui somministrare una dieta bilanciata, piccoli pasti frequenti con consistenza liquida ad elevata densità calorica per ridurre la quantità di cibo da somministrare.

Nei casi di disoressia, in cui l’appetito è conservato ma capriccioso, si possono invece selezionare proteine di alto valore biologico ed elevata digeribilità. A differenza di quello che si potrebbe presumere i gatti affetti da pancreatite sono in grado di tollerare diete con un tenore medio-alto di grassi; anzi, i grassi rendono più appetibile l’alimento. Quindi non devono essere eliminati del tutto se non quando sia presente grave diarrea.

Nel caso in cui il problema sia prevalentemente costituito da IBD è bene utilizzare una fonte proteica o un alimento che contenga proteine idrolizzate. In ultima analisi, si ricorda che la fibra solubile può essere utile per la sua capacità di ridurre al minimo l’assorbimento intestinale di ammoniaca.

Prognosi e conclusioni

Se individuata in tempo, ed affrontata con il giusto approccio medico farmacologico, la prognosi della triadite è favorevole. Dobbiamo però ricordare che esistono anche situazioni particolari, spesso legate a gravi compromissione dello stato clinico del paziente, in cui essa può diventare da riservata ad infausta.

Quando i nostri gatti iniziano a presentare uno o più sintomi tra quelli che abbiamo descritto è perciò sempre consigliata una visita veterinaria tempestiva. Questo ci permette di individuare il problema in tempo utile e aumentare la possibilità di guarigione rapida e completa.

Nella maggior parte dei casi, con il giusto supporto medico e un’ospedalizzazione di durata variabile in relazione alla gravità della patologia, i nostri pazienti ritornano più in forze di prima.

Le vaccinazioni per conigli: cosa c’è di nuovo

Da alcuni mesi è entrata nell’uso comune una novità davvero interessante nel campo delle vaccinazioni per conigli: un vaccino trivalente per la prevenzione delle malattie infettive del coniglio.
Questo vaccino protegge contro tutte e tre le malattie virali del coniglio: la mixomatosi e i due ceppi di malattia emorragica virale (MEV1 e MEV2).

L’occasione di presentarvi questa novità ci sembra la più adatta per parlare delle vaccinazioni per conigli, cercare di fare chiarezza sulla loro necessità, sulle malattie trattate dal vaccino, su modalità e tempi di vaccinazione.

Patologie per cui si vaccina il coniglio

La Mixomatosi

La mixomatosi è una patologia virale molto contagiosa, con elevata mortalità. I sintomi comprendono:

  • abbattimento
  • congiuntivite
  • rigonfiamenti cutanei sulla testa e gli arti
  • infiammazione degli organi genitali

I sintomi portano al decesso entro 10 giorni. Si trasmette con il contatto diretto con conigli infetti e attraverso la puntura di insetti ematofagi (pulci e zanzare).

MEV 1 e 2

La MEV 1 (Malattia Emorragica Virale – ceppo 1) è una malattia infettiva acuta che provoca gravi lesioni polmonari ed epatiche. La causa è un virus specifico del coniglio, che non colpisce nessun’altra specie animale.
La malattia si trasmette per contatto diretto con un coniglio ammalato e tramite insetti vettori: pulci, mosche, zanzare. Colpisce solo i conigli al di sopra di 30-50 giorni di vita e la sua mortalità è altissima (80-100%). Un sintomo tipico è rappresentato dalla morte improvvisa del coniglio causata da emorragie in tutti gli organi, in particolare nei polmoni.

La MEV2 (Malattia Emorragica Virale – ceppo 2) è una variante sierologica della MEV1, è arrivata in Francia nel 2010 e successivamente in Italia. Questa nuova variante differisce dalla MEV1 in alcuni aspetti:

  • Colpisce i conigli di tutte le età
  • Non è specie specifica: infatti può infettare anche la lepre
  • non risponde al vaccino classico per la MEV

sintomi sono molto simili a quelli della MEV 1, anche se la mortalità è leggermente minore.

Noi consigliamo caldamente le vaccinazioni per i conigli perché:

Al momento per nessuna di queste patologie virali esiste una cura. Inoltre si tratta di patologie a denuncia obbligatoria: significa che il regolamento di polizia veterinaria impone per i conigli infetti l’abbattimento e la loro distruzione, per impedire la diffusione del virus.

Sono patologie rischiose anche per i conigli pet, quelli che vivono nelle nostre case come animali d’affezione. Se infatti per loro è più rara la possibilità di una trasmissione da contatto diretto con soggetto infetto, corrono comunque il rischio di essere infettati attraverso la puntura di insetti ematofagi, come le zanzare.
Per questo non si può parlare di rischio di infezione pari a zero neanche per i soggetti che vivono esclusivamente al chiuso in appartamento.

Quindi, anche in presenza di un rischio di contagio non elevato, proprio perché la prognosi è spesso infausta e l’alta diffusibilità ne comporta denuncia e abbattimento il vaccino è un ottimo salvavita per i conigli pet, oltre che mostrarsi come buon metodo di prevenzione di epidemie negli allevamenti.

Il nuovo vaccino è sicuro ed efficace

Il nuovo vaccino va a sostituire i diversi protocolli (annuali o semestrali) utilizzati negli ultimi anni per la protezione contro Mixomatosi, MEV1 e MEV2. È un vaccino efficace e molto ben tollerato, con effetti collaterali rari su animali sani.
Si può utilizzare per ottenere una buona immunità a partire dalle 5 settimane d’età. Sarà comunque il veterinario, al momento della visita, a valutare se effettuarlo in base allo stato di salute e alle dimensioni del soggetto.

È un vaccino altamente tecnologico e, a causa del suo funzionamento, se un coniglio in passato è stato vaccinato esclusivamente per la mixomatosi potrebbe non essere efficace e non stimolare la produzione anticorpale verso MEV1 e MEV2. Per questo motivo è tanto più importante il ruolo di un veterinario esperto, che può valutare il protocollo vaccinale che il coniglio ha seguito in passato e decidere di conseguenza le tempistiche di somministrazione del nuovo vaccino.

Il nuovo vaccino trivalente ha un’efficacia annuale e va ripetuto ogni anno per tutta la vita del coniglio. Come tutti i vaccini va somministrato esclusivamente a soggetti sani, pertanto è molto importante una visita clinica accurata prima della vaccinazione.

Cosa cambia per il coniglio?

Grazie a questo vaccino il coniglio potrà avere una buona protezione contro mixomatosi, MEV1 e MEV2 con una sola iniezione . Questo diminuisce la complessità di protocolli vaccinali ed evita al proprietario di dover stare dietro a intrecci di vaccini semestrali, annuali, bivalenti, monovalenti. Ridurre questa complessità si traduce nel rendere più semplice e quindi più efficace la cura e la tutela della salute dei nostri amici conigli.

Le visite periodiche e le vaccinazioni per i conigli

Come abbiamo anticipato grazie a questo nuovo vaccino per i nostri conigli la visita vaccinale verrà quindi effettuata una volta all’anno.
Il coniglio però è un animale col metabolismo molto rapido ed essendo in natura una preda tende a mascherare i sintomi patologici fino a che questi non sono già gravi.

Per questo motivo, pur se sottoposto a questo nuovo vaccino, la visita veterinaria semestrale resta un presidio molto importante per tutelare la salute del coniglio. È molto utile, infatti, per controllare in maniera accurata denti, orecchie, addome e anche per non tralasciare il taglio delle unghie e poter avere un confronto e consigli personalizzati su gestione o comportamento.

Quando fare il richiamo del vaccino per cane e gatto? Ci aiutano i test anticorpali

Da sempre siamo abituati a recarci dal veterinario ogni anno per il richiamo del vaccino per il nostro cane o il nostro gatto.
Negli ultimi anni, tuttavia, sono stati condotti alcuni interessanti studi dai quali emerge che la frequenza di vaccinazione contro le malattie infettive può essere ridotta.
Anche le linee guida elaborate dalla WSAVA (World Small Animal Veterinary Association) sostengono che grazie a una corretta vaccinazione in  cuccioli e gattini si crea una solida immunità. Quando ciò avviene gli anticorpi contro la maggior parte delle malattie infettive permangono nel circolo sanguigno a livelli tali da essere considerati protettivi per circa 3 anni.
Vediamo nel dettaglio di cosa si tratta e come possiamo stabilire per quanto tempo sono davvero efficaci le vaccinazioni.

Il richiamo del vaccino per il cane

La WSAVA classifica i vaccini in base alla gravità delle malattie che prevengono. Abbiamo quindi vaccini

  • core : quelli contro malattie molto gravi e verso cui dovrebbero essere vaccinati gli animali di tutto il mondo. Nel cane i vaccini core sono quelli contro cimurro, Adenovirus canino e Parvovirus canino.
  • non core : quelle vaccinazioni che vanno effettuate solo in determinate aree geografiche, a seconda del rischio di quell’animale di contrarre tale malattia.

La WSAVA consiglia di eseguire la prima vaccinazione core non prima della 6°-8° settimana di vita del cucciolo. Prima infatti il cucciolo è protetto, dal momento che nel circolo sanguigno del cucciolo sono ancora presenti numerosi anticorpi materni trasmessi nelle prime ore di vita attraverso il colostro.

Alla prima somministrazione devono quindi seguire dei richiami vaccinali ogni 2-4 settimane fino ai 4 mesi di vita del cucciolo. Infine un ultimo richiamo si effettua intorno ai 6 o 12 mesi di vita. Conclusa questa prima tranche di vaccinazioni il cucciolo acquisisce una solida immunità che resisterà per molti anni senza necessità di eseguire ulteriori vaccinazioni.

Per quanto riguarda il richiamo del vaccino dopo l’anno di età, il consiglio è di vaccinare una volta all’anno contro le malattia batteriche (ad esempio contro la Bordetella, spesso responsabile delle stizzose tossi autunnali, e contro la Leptospirosi, una malattia che può essere trasmessa anche all’uomo e che trova nei roditori il principale veicolo di diffusione) mentre per i vaccini core sarà necessario un richiamo ogni 3 anni.

Il richiamo del vaccino per il gatto

I vaccini considerati core nel gatto sono quelli contro i virus della panleucopenia felina, l’Herpesvirus felino e il Calicivirus.

Anche per i gattini valgono le stesse indicazioni che abbiamo fornito per i cuccioli: iniziare con il primo vaccino non prima delle 6-8 settimane di vita ed effettuare un richiamo vaccinale ogni 2-4 settimane fino ai 4 mesi di vita del gattino. Seguirà infine un ultimo richiamo ai 12 mesi di vita del gattino.

Per i richiami, la WSAVA divide i gatti in soggetti ad alto e basso rischio:

  • gatti ad alto rischio di contrarre malattie infettive: sono quelli che hanno possibilità di uscire di casa e incontrare/scontrarsi con altri gatti
  • gatti a basso rischio: sono gli esemplari che vivono unicamente in casa.


Per i soggetti a basso rischio il consiglio è di eseguire una vaccinazione di richiamo ogni 3 anni. Proprio in questo caso è importante, quindi, eseguire una visita annuale e magari ricorrere ad un test anticorpale che ci confermi il persistere dell’immunità del paziente. Questo passaggio è necessario perché anche i gatti di casa potrebbero avere bisogno di ricovero e degenza, trovarsi magari malati in clinica con basse difese immunitarie e vicini ad altri animali.

Invece per i gatti che escono e hanno contatti con altri è consigliata una vaccinazione di richiamo annuale contro Herpesvirus e Calicivirus e ogni 3 anni contro la panleucopenia felina.
Merita un discorso a parte la vaccinazione contro la leucemia felina (FeLV): anche se questo vaccino è classificato come non core alle nostre latitudini risulta fortemente consigliato per tutti i gatti che hanno possibilità di uscire all’esterno. Per garantire una corretta immunità sono necessarie 2 dosi di vaccino somministrate a 2-4 settimane di distanza, a partire da non prima delle 8 settimane di età.

I test anticorpali: cosa sono e a cosa servono

Oggi esistono dei test anticorpali per la determinazione degli anticorpi nei confronti di ParvovirusCalicivirus ed Herpesvirus nel gatto e per Cimurro, Epatite infettiva e Parvovirosi nel cane. Per eseguire il test basta un prelievo di sangue.

Lo scopo di questi test è valutare lo stato di immunità dei cani e dei gatti riguardo agli agenti patogeni: li usiamo per determinare il titolo di IgG ( = immunoglobuline, ovvero anticorpi) prima e dopo la vaccinazione e valutare così la durata dell’immunità.

In pratica questi test ci aiutano

  • prima di ricorrere al richiamo del vaccino per il cane o il gatto, per sapere se e quando sia necessario
  • dopo aver effettuato il vaccino (specie se si tratta di cuccioli) per valutare il titolo anticorpale e capire quindi se la vaccinazione “è andata a buon fine”, facendo produrre al paziente un adeguato numero di anticorpi.

Infine due precisazioni: la prima è che non ci sono evidenze circa la potenziale pericolosità della ripetizione annuale della vaccinazione anziché la sua ripetizione ogni 3 anni, salvo per quei soggetti in cui sia nota una sensibilità agli antigeni virali/batterici o agli eccipienti della preparazione vaccinale che viene inoculata.

Questo significa che, salvo casi particolari, non è pericoloso per i nostri animali ripetere la vaccinazione anche con maggior frequenza di quanto necessario. Tuttavia, come ricordano le linee guida stabilite dalla WSAVA, ogni scelta in quest’ambito dev’essere valutate dal Medico Veterinario di caso in caso e non ci sono procedure standard che valgano in assoluto per tutti.

Parlane con il medico

Il ricorso ai test anticorpali è uno strumento molto utile per valutare in modo più approfondito lo stato di salute dei nostri amici animali, l’efficacia delle vaccinazioni fatte e la necessità di ricorrere a un richiamo. In questo senso il rapporto con il vostro medico veterinario è sempre determinante, proprio perché può darvi indicazioni specifiche riguardo alle esigenze di ogni singolo paziente e tutelarne così al meglio il benessere.