La sterilizzazione in laparoscopia: un grande passo avanti per la chirurgia veterinaria

Forse hai già sentito utilizzare il termine laparoscopia per la medicina umana, ma hai mai sentito parlare di sterilizzazione in laparoscopia nel campo della veterinaria?

Si tratta di un’alternativa molto interessante alle metodiche più tradizionali, che riduce ulteriormente dolore e stress per i pazienti che si sottopongono a questa procedura.

Dal momento che per noi il benessere dei pazienti è sempre al primo posto, siamo felici di poter proporre anche questo tipo di soluzione e di spiegare al meglio di cosa si tratta.

Cos’è la laparoscopia e cosa si intende per chirurgia laparoscopica

Laparoscopia è il termine che si usa per descrivere l’esame endoscopico della cavità addominale (o toracica) a fini diagnostici o terapeutici.
La medesima tecnica, che prevede di praticare incisioni molte piccole, si può utilizzare per effettuare non solo esami, ma anche veri e propri interventi.
In molte circostanze può rappresentare un interessante vantaggio rispetto alla tecnica chirurgica convenzionale (detta “open”).

Di solito questa tecnica implica di praticare due-tre piccole incisioni associate, invece di una più ampia caratteristica della chirurgia convenzionale. La laparoscopia, che ormai è standard per moltissime procedure in medicina umana, oggi è sempre più diffusa anche in medicina veterinaria.

Questo tipo di chirurgia, detta anche mini-invasiva, risulta utilissima in molteplici procedure, dalle biopsie di organi addominali e toracici, alla rimozione di neoplasie.

Nonostante quindi i vantaggi di questa tecnica siano importanti anche per diverse altre applicazioni, ad oggi l’uso più diffuso rimane quello legato alle procedure relative alla sterilizzazione della cagna.

La sterilizzazione in laparoscopia

Ricorrere alla chirurgia mini-invasiva per la sterilizzazione presenta importanti vantaggi rispetto alle procedure tradizionali:

  • Gli accessi chirurgici o brecce operatorie, in pratica i tagli che bisogna praticare, sono di piccola dimensione
  • Riduce il dolore delle ferite chirurgiche, facilitando la ripresa post operatoria
  • Richiede meno punti di sutura
  • Permette un ritorno più rapido alla normale attività perché migliora il comfort del paziente e comporta una minor formazione di tessuto cicatriziale

L’intervento di sterilizzazione

Ovariectomia è il termine tecnico per indicare la sterilizzazione della cagna.

Questa procedura è particolarmente consigliata per pazienti di tutte le età, in particolare:

  • medio/grandi (superiori a 15 Kg), dove i vantaggi della tecnica si rendono più apprezzabili
  • in cagne di grande taglia adulte/anziane e in sovrappeso; per queste pazienti la tecnica raggiunge il massimo vantaggio della sua applicazione, dal momento che il tipo di tessuto e la quantità di grasso rendono più difficoltoso l’intervento tradizionale.

Si tratta di un intervento rapido e privo di sanguinamento. Ecco qualche cenno su come si svolge.

Si effettuano tre piccole incisioni cutanee: 5mm o 10mm nei cani più grandi. Attraverso queste incisioni viene inserita la strumentazione in addome: telecamera e pinze capaci sia di tagliare che di coagulare.
La chirurgia viene effettuata osservando tutta la procedura su un monitor medicale. Consiste nella rimozione delle ovaie attraverso gli stessi piccoli fori di accesso della strumentazione (lasciando l’utero in sito).

Coma abbiamo anticipato questa tecnica, rispetto a quella cosiddetta “a cielo aperto”, si caratterizza per una minore dolorabilità, una rapida ripresa e, di conseguenza, dimissione. Gli accessi operatori cutanei normalmente possono chiudersi anche senza l’ausilio di punti.

Proprio come accade per la medicina umana, anche nella medicina veterinaria la procedura della laparoscopia può/deve essere convertita in tecnica tradizionale in caso di imprevisti.

Quanto costa?

Il costo è una variabile di cui non possiamo non tenere conto nel presentare le diverse opzioni possibili per la sterilizzazione. 

costi dell’intervento di laparoscopia sono certamente più elevati e sono risultato del ricorso ad una strumentazione moderna e molto costosa, nonché dell’elevata professionalità di un chirurgo esperto in chirurgia mini-invasiva.

La laparoscopia alla Clinica Veterinaria San Paolo

La nostra clinica nei suoi ormai dieci anni di storia non ha mai smesso di impegnarsi per restare al passo e  offrire un servizio sempre aggiornato dal punto di vista medico.

Proprio in quest’ottica da alcuni mesi abbiamo reso  possibile infatti effettuare questo tipo di intervento presso la Clinica. Proponiamo l’approccio chirurgico laparoscopico a pazienti selezionati. Prima effettuiamo sempre uno screening clinico ed ematologico, valutando insieme al proprietario per ogni specifico animale i benefici di questa procedura rispetto a quella tradizionale.

La chirurgia mini invasiva offre diversi vantaggi. È molto stimolante dal punto di vista tecnico e risulta davvero essenziale per poter effettuare alcune particolari manovre, come quelle concernenti l’accesso alla cavità toracica o parti dell’addome che richiederebbero aperture chirurgiche molto estese per una valutazione.

Per quanto riguarda la sterilizzazione la tecnica classica “Open” resta un’alternativa che permette di accedere a questa procedura ad costo più contenuto (soprattutto per i piccoli animali). Tuttavia la sterilizzazione laparoscopica è una tecnica davvero rapida ed efficace, che merita di essere presa in seria considerazione per i suoi vantaggi, soprattutto negli animali medio/grandi.

L’importanza di un corretto intervento

Su qualsiasi modalità di intervento ricadano la nostra e la vostra scelta ti vogliamo ricordare in ogni caso l’importanza clinica della sterilizzazione per il paziente. Come per tutte le procedure chirurgiche, inoltre, la qualità del risultato non può prescindere da un lavoro di team meticolosamente orchestrato ed eseguito in un ambiente igienico moderno, curato ed attrezzato.

Da sempre ci impegniamo a raggiungere risultati ottimali e di benessere a partire dal percorso anestesiologico in sicurezza, passando per la sterilità e la qualità della procedura, per giungere alla cura meticolosa del post operatorio.

La nostra soddisfazione più grande è quella di vedervi riabbracciare quanto prima i vostri amici come se non fossero mai passati dalla sala operatoria.

La displasia dell’anca nel cane.‌ Prevenire è meglio, curare si può.

La displasia dell’anca è una patologia ereditaria nel cane e colpisce per lo più esemplari geneticamente predisposti di taglia media, grande e gigante.

Resta ad oggi una delle patologie ortopediche più diffuse e questo nonostante il lavoro di selezione dei riproduttori, praticato dagli allevatori ormai da tempo, e l’attenzione crescente dei proprietari verso questa patologia.

Displasia d’anca nel cane: di cosa si tratta

Questa patologia interessa l’articolazione dell’anca, formata dalla testa del femore e dall’acetabolo del bacino che l’accoglie.
Quando l’acetabolo non accoglie più perfettamente la testa del femore i due capi articolari diventano incongruenti (cioè non perfettamente appaiati) e l’anca si dice displasica.
Con il tempo la cartilagine si erode e si vanno a creare alterazioni morfologiche dei capi articolari, con conseguente deposizione di tessuto osteofitario (artrosi).

Il sintomo più evidente e comune della displasia d’anca è la zoppia del paziente causata dal dolore. La displasia nei casi più gravi può esordire dall’età pediatrica oppure manifestarsi nell’età adulta avanzata quando si hanno casi più lievi.

Predisposizione alla displasia

La patologia è determinata da molti fattori, anche se è dimostrato che l’ereditarietà è predisponente, dal momento che vengono colpiti per lo più cani di taglia media, grande e gigante.

Alcune razze risultano essere più predisposte di altre. In particolare:

  • pastore tedesco
  • labrador
  • golden retriever
  • rottweiller
  • bovaro del bernese
  • boxer, il border collie
  • bulldog
  • san bernardo

E molte altre ancora;‌ tuttavia anche i meticci che da adulti raggiungono un peso superiore a 20 kg, in quanto discendenti da cani di razza, possono essere soggetti a displasia d’anca.

Altri fattori possono peggiorare la gravità della patologia su soggetti con una predisposizione genetica:

  • obesità
  • mancanza di un buon tono muscolare
  • mancanza di esercizio
  • attività fisica inadeguata

Quando la displasia può essere scambiata per pigrizia del cane

sintomi che ci mettono in allerta possono insorgere in età pediatrica o durante la vecchiaia: questo dipende dalla gravità della patologia.

In ogni caso il primo sintomo che il proprietario nota e riferisce è una zoppia “a freddo” del posteriore, ossia una difficoltà ad alzarsi e a camminare dopo essere rimasti fermi per qualche ora.
Di solito questo atteggiamento anomalo si esaurisce in pochi minuti, dopodiché il cane torna quello di sempre.

La comparsa di un sintomo così effimero fa sì che in passeggiata il proprietario non noti difetti, ma riporti piuttosto di avere un cane “pigro”, che rifiuta l’attività fisica intensa e/o prolungata, oppure che gioca solo per alcuni minuti e poi si stufa.

Se impegnato in un’attività più intensa del solito (come una passeggiata in montagna) il giorno dopo è stanco, rimane nella cuccia e non vuole uscire.

Proprio perché‌ i primi sintomi non sono facili da interpretare bisogna quindi tenere a mente che la displasia dell’anca è una patologia dolorosa e i comportamenti che abbiamo elencato sono indice di dolore, o fastidio al movimento articolare.

Come ovvio i sintomi variano in base alla gravità della displasia:

  • patologia lieve: il dolore si manifesta soprattutto quando l’articolazione rimane ferma per qualche ora. Ecco la comparsa di zoppia a freddo.
  • patologia moderata/grave: il dolore è costante e presente tutto il giorno. Il cane appare più tranquillo, “pigro”, prova a correre o giocare ma dopo poco deve desistere perché troppo doloroso.

Se quindi la nostra diagnosi arriva in una fase precoce possiamo prevenire l’aggravarsi del dolore articolare e garantire al paziente una qualità di vita migliore.

Diagnosi della displasia: precoce è meglio!

Per diagnosticare precocemente la displasia d’anca sono necessari:

  • una prima visita ortopedica intorno ai 4 mesi di età
  • in seguito alla visita uno studio radiografico completo in sedazione. La sedazione è indispensabile per la precisione del posizionamento e per eseguire test diagnostici specifici

Lo studio radiografico prevede diverse proiezioni; dalle radiografie ottenute si estrapolano degli indici che ci rivelano il grado di lassità articolare, cioè quanto la testa del femore si allontana dall’acetabolo. Inoltre vengono esaminati accuratamente i profili articolari per valutare se è già presente rimodellamento dei capi articolari (alterazione del profilo dell’articolazione), elemento che ci indica una  evoluzione negativa della patologia.

In base allo studio radiografico precoce si può esprimere un giudizio clinico sulla patologia e definirla di grado lieve, moderato o grave.

Arrivare presto alla diagnosi è di grande importanza per il benessere del cane.

Se infatti arriviamo a supporre che la patologia possa avere un’evoluzione grave possiamo intervenire con la chirurgia quando l’apparato scheletrico è ancora in accrescimento. In questo modo riusciamo a limitare i danni articolari nell’età adulta.

Se il cane ha già superato l’età della diagnosi precoce (5-6 mesi) e sospettiamo che possa soffrire di displasia, è sempre consigliata una visita ortopedica seguita da uno studio radiografico in sedazione. Anche in questo caso la sedazione è importante, non tanto per la precisione del posizionamento, ma perché molto probabilmente il cane avrà dolore e muovendosi può rendere impossibile eseguire il test in maniera corretta.

Un esame che non ha finalità diagnostica:‌ lo studio radiografico ufficiale

Lo studio radiografico ufficiale non nasce per fare diagnosi di displasia d’anca, ma serve a certificare sul pedigree il grado di displasia del cane.
Non è obbligatorio, ma spesso è richiesto in caso di attività sportiva, manifestazioni agonistiche, oppure per far riprodurre il proprio animale.

Lo studio radiografico ufficiale può essere eseguito a partire dai 12 mesi di età per tutte le razze, tranne alcune razze giganti per le quali l’età minima dello studio è stata posticipata a 15 o 18 mesi.

Viene eseguito sempre in sedazione, le radiografie vengono inviate, insieme alla documentazione del cane e al pedigree, ad una centrale di lettura che definirà il grado di displasia:

  • A: nessun segno di displasia;
  • B: lieve incongruenza articolare;
  • C: leggera displasia d’anca, moderata incongruenza articolare;
  • D: media displasia d’anca, grave incongruenza articolare;
  • E: grave displasia d’anca, marcate modificazioni dei capi articolari.

Come si tratta il cane affetto da displasia

La diagnosi di displasia d’anca non significa una condanna a vita per il nostro animale.

Esistono diversi tipi di trattamento che si possono intraprendere e che variano a seconda dell’età, dello stato clinico generale e della gravità della patologia.

Possiamo dividere questi trattamenti in due categorie:‌ quelli chirurgici, che servono a ridurre o a eliminare il problema, e la terapia conservativa, che aiuta il paziente, diminuisce il dolore percepito e lo stato d’infiammazione.

Il trattamento chirurgico della displasia

In base alla gravità del processo patologico e alle condizioni particolari del paziente (età, sintomatologia e stato generale) possiamo ricorrere a trattamenti chirurgici preventivi, sostitutivi e palliativi.

  • Preventivi:
    I trattamenti preventivi vengono presi in considerazione in base ai risultati ottenuti dallo studio radiografico e consentono di diminuire la comparsa di danni irreversibili a carico dell’articolazione o di rallentare nel tempo la progressione della patologia. Sono trattamenti preventivi
    _ Sinfisiodesi pubica: chirurgia poco invasiva che si esegue solo in animali molto giovani (generalmente entro i 4 mesi) e solo in caso di forme lievi.
    – TPO (Triplice Osteotomia Pelvica) e DPO (Duplice Osteotomia Pelvica): osteotomie correttive di bacino, cioè interventi più invasivi del precedente e prevedono un’età massima del paziente di circa 6 mesi. Queste chirurgie sono adatte a forme lievi e moderate di displasia in pazienti asintomatici.
  • Sostitutivi
    Ad oggi l’unico trattamento sostitutivo in caso di displasia è la protesi totale d’anca. Consiste nella sostituzione della testa del femore e dell’acetabolo con elementi protesici che ristabiliscono la completa funzionalità articolare. Questa chirurgia rimuove completamente il dolore articolare e migliora nettamente la qualità di vita del paziente. La protesi d’anca viene suggerita in pazienti giovani con forme gravi o in pazienti adulti o anziani con artrosi coxo-femorale.
  • Palliativi
    Questi trattamenti puntano a ridurre il dolore articolare senza però ripristinarne la funzionalità. Con l’aumentare delle tecniche chirurgiche preventive e sostitutive e con la maggior sensibilizzazione dei proprietari verso questa patologia, le chirurgie palliative vengono prese sempre meno in considerazione. Tra queste si ricorda l’ostectomia del collo e testa femorale.

Terapia conservativa

La terapia conservativa consiste in un insieme di trattamenti, farmacologici e non, che mira a ridurre o rallentare l’insorgenza di artrosi, diminuire l’infiammazione e il dolore articolare.

Questo tipo di percorso viene consigliato in pazienti giovani con displasia di grado lieve o in adulti o anziani con artrosi che non possono essere sottoposti a protesi d’anca.

Nella terapia conservativa la gestione del peso è fondamentale. In pazienti obesi o sovrappeso il danno articolare dovuto all’incongruenza dei capi articolari è maggiore e quindi la patologia avanzerà più velocemente. Altrettanto importante è il mantenimento di un buon tono muscolare attraverso un’attività fisica controllata come passeggiate lunghe, piccole corse o nuoto e praticata con costanza. Sono sempre da evitare le attività che prevedono salti o traumi in quanto possono esordire in microtraumi cartilaginei che peggiorano il quadro infiammatorio e accelerano la patologia.

Il trattamento fisioterapico è spesso consigliato, in quanto, specialisti del settore possono studiare il singolo caso e attraverso attività fisica controllata o attrezzature specialistiche riducono il quadro infiammatorio e migliorano il tono muscolare.

Nella terapia conservativa in supporto alla gestione del peso e al mantenimento del tono muscolare si accompagnano armaci antinfiammatori (FANS) e/o veri e propri antidolorifici per il trattamento del dolore e fitoterapici e nutraceutici per preservare l’integrità della cartilagine.

Il benessere dei pazienti è il nostro primo obiettivo

Se è importante saper scegliere la giusta terapia per ogni stadio della displasia, ancora più importante è riuscire, quando possibile, a prevenire le sue manifestazioni più estreme.

La prevenzione, infatti, è l’unico strumento a cui possiamo affidarci per evitare al nostro cane dolore costante e danni permanenti alle articolazioni.

Proprio perché siamo consapevoli dell’importanza di un percorso di cura dedicato alla displasia abbiamo raccolto tutte le prestazioni utili al benessere dei pazienti a rischio in un piano di salute dedicato. Così sarà ancora più semplice prenderti cura al meglio del tuo amico a quattro zampe, garantirgli una vita attiva senza rinunciare alla felicità di condividere corse e giochi.

Filaria e filariosi:‌ i rischi per i nostri cani (e non solo) e l’importanza della prevenzione

Forse hai sentito parlare, magari al parco da qualcuno preoccupato per il proprio cane, dei cosiddetti “vermi del cuore”: si tratta di un parassita, noto come Filaria, che può causare la filariosi, una patologia molto seria.
Purtroppo questo parassita arriva a infestare i nostri amici, soprattutto cani, attraverso un evento banale come la puntura di zanzara. Quando la primavera si fa strada e le punture d’insetto diventano più frequenti è importante quindi proteggere i nostri cani, ma anche gatti e furetti.
Per sapere come e scoprire nel dettaglio il ciclo di vita di questo parassita seguici in questo articolo che abbiamo redatto per sgombrare il campo da dubbi e aiutarti a prenderti cura al meglio dei tuoi animali

Filaria e filariosi cardiopolmonare: di cosa si tratta

La filariosi cardiopolmonare è una patologia parassitaria che può colpire i nostri animali domestici, oltre ad alcune specie di animali selvatici .
​Più spesso vengono infestati i cani, ma anche i gatti ed i furetti possono essere vittime di questa importante malattia.
L’infestazione è causata da un nematode (verme tondo), ovvero la Dirofilaria Immitis, più comunemente nota come “Filaria”. Le larve di questo parassita vengono trasmesse da un individuo ad un altro tramite un vettore (la zanzara), che le immette nel circolo sanguigno dei nostri animali.
Andiamo a vedere nel dettaglio cosa succede

Il ciclo vitale della Filaria

Il parassita: la filaria

La Dirofilaria Immitis, nella sua forma adulta detta Macrofilaria, è un verme tondo filiforme che può raggiungere anche i 15-30 cm di lunghezza, a seconda che si tratti di esemplari maschili o femminili.

Come la Leishmania (di cui abbiamo già parlato qui ) anche la Filaria è un endoparassita, ovvero ha necessità di compiere il suo ciclo vitale all’interno di ospiti animali. Il ciclo vitale è di tipo indiretto, quindi non può essere trasmessa direttamente da un ospite definitivo ad un altro (ad es. da cane a cane), ma deve svolgere parte della sua crescita, da larva ad esemplare adulto, in un ospite intermedio che fa da vettore: la zanzara.

La zanzara:‌ il vettore della filaria e come avviene l’infestazione

Il parassita adulto abita i grossi vasi sanguigni polmonari e cardiaci dell’ospite definitivo, che, come abbiamo accennato, è quasi sempre un cane, ma può essere anche un gatto o un furetto. Qui dà origine ai sintomi e quindi alla malattia vera e propria, la filariosi.
Non solo: i vermi all’interno dei grossi vasi si accoppiano e producono delle larve. Nel loro primo stadio larvale le MICROFILARIE (o L1) migrano dai grossi vasi ai vasi sanguigni periferici cutanei, arrivando quindi in sostanza molto vicine alla pelle dei loro ospiti. Ed è qui che vengono prelevate dalle zanzare durante il pasto di sangue.

La zanzara prende il nome di ospite intermedio. All’interno delle zanzare, infatti, le larve in stadio L1 maturano e arrivano allo stadio L3. Le larve L3 vengono così iniettate, insieme alla saliva, dalla zanzara in un nuovo ospite definitivo (ad es. un cane).

Le L3 si annidano nel tessuto sottocutaneo del loro ospite definitivo per circa 3 mesi, maturando ancora fino allo stadio L5, per poi entrare nel circolo venoso centrale, arrivare nei grossi vasi polmonari e cardiaci e trasformarsi in parassiti adulti.

Il parassita adulto e la conclusione del ciclo

I parassiti adulti, esemplari maschili e femminili, si accoppieranno per produrre nuove microfilarie einiziare nuovamente il ciclo.
​Il periodo di sviluppo, dall’infestazione della larva L3 alla maturità sessuale del parassita (detto periodo di prepatenza) richiede circa 6 mesi nel cane e 8 nel gatto; una volta adulto il parassita ha una vita media di anche 4-5 anni nel cane e 2-3 nel gatto.

​Dopo la fecondazione, la femmina infatti rilascia nel sistema circolatorio dell’ospite definitivo le microfilarie che possono rimanere in circolo anche per 2 anni, aspettando l’arrivo di un vettore per completare il loro ciclo vitale.

La filaria:‌ un pericolo per cani, ma anche gatti e furetti

Gli ospiti definitivi delle larve della filaria sono soprattutto alcuni dei nostri animali domestici: cane, gatto e furetto.

La filaria nel cane

Il cane è in assoluto l’animale più ricettivo e quindi più soggetto a presentare l’infestazione e la malattia. Rappresenta l’ospite preferito per il parassita; nell’organismo del cane infatti la filaria riesce a compiere l’intero ciclo e a produrre una quantità anche molto alta di microfilarie per continuare il ciclo successivo.

La filaria nelle altre specie

Al contrario il gatto non rappresenta l’ospite ideale per la filaria. La maturazione da L3 ad esemplare adulto viene spesso contrastata efficacemente dal sistema immunitario del gatto, pertanto il parassita non riesce a svolgere il ciclo completo.
Quando questo avviene comunque l’infestazione spesso è sostenuta da pochi esemplari adulti che non sempre sono in grado di produrre microfilarie. La microfilaremia (ovvero la presenza nel circolo periferico di larve L1) è quindi di solito di breve durata e di bassa carica.

Il Furetto presenta una situazione intermedia tra cane e gatto, abbastanza ricettivo, presenta spesso sintomi importanti e molto gravi.

La diffusione della filaria sul territorio

La filariosi cardiopolmonare è diffusa in varie aree del territorio europeo.
​In italia le zone più colpite, dove risulta endemica, sono quelle del Nord Italia situate intorno alla Pianura Padana. La presenza del parassita fu scoperta per la prima volta nel 1626.

Le aree più a rischio sono: Lombardia, Piemonte e Veneto meridionali, Liguria orientale, Toscana centro-settentrionale ed Emilia Romagna, anche se non mancano casi in altre zone della penisola.
Negli ultimi decenni infatti, con l’intensificarsi degli spostamenti degli animali domestici insieme ai loro proprietari, si è assistito ad una maggiore diffusione.

L’azione patogena della filaria

La filariosi cardiopolmonare prende questo nome perché il parassita adulto si stabilisce nei grossi vasi sanguigni polmonari (arterie polmonari per lo più) e, in uno stadio più avanzato, nelle camere cardiache destre dell’ospite.
Il periodo di prepatenza (ovvero il periodo che intercorre dall’infestazione alla maturazione del parassita nel suo stadio adulto) dura circa 6 mesi. In questo periodo il cane non manifesa nessuna sintomatologia.

Trascorsi i 6 mesi il verme adulto può iniziare a causare modificazioni sempre più importanti nell’efficienza del circolo sanguigno: prima a livello polmonare, poi cardiaco, e creare sintomi progressivi sempre più gravi, fino a causare anche la morte del suo ospite.
L’azione patogena che il parassita è in grado di provocare nell’animale che ha infestato è determinata da diversi fattori:

  • Riduzione del flusso di sangue arterioso verso i polmoni per occupazione di spazio nelle arterie polmonari
  • Azione infiammatoria sui vasi sanguigni
  • Formazione di turbolenze del flusso ematico vicino alla valvola cardiaca, con successiva azione emolitica (distruzione di globuli rossi), date dal movimento “a frusta” delle filarie.
  • Tromboembolismi per morte dei parassiti

I sintomi: nel cane…

Il cane può rimanere asintomatico per molto tempo, anche per anni. L’insorgenza della malattia infatti è per lo più di tipo cronico e porta a sintomi progressivi.
La gravità dei sintomi dipende dalla gravità dell’infestazione (quanti parassiti adulti e di che dimensioni sono presenti nel paziente) e dalle dimensioni del paziente stesso (in animali di piccole dimensioni anche infestazioni di minore entità sono in grado di dare sintomi più gravi e a più rapida evoluzione).

Ecco alcuni tra i sintomi causati dalla filariosi che possiamo riscontrare nei nostri cani:

  • Intolleranza all’esercizio ed affanno durante l’attività fisica, calo delle prestazioni (questi sintomi sono più evidenti in cani da lavoro o sottoposti ad intensa attività fisica)
  • Tosse
  • dispnea, cioè difficoltà a respiratore, da lieve a grave
  • Dimagrimento cronico
  • Episodi di sincopi (svenimenti), soprattutto durante o dopo l‘esercizio fisico.
  • Insufficienza cardiaca congestizia destra: patologia cardiaca grave in grado di dare anche ascite (raccolta di liquido in addome) e formazione di edemi periferici
  • Ipertensione polmonare
  • Anemia ed emolisi (rottura dei globuli rossi)
 

…nel gatto e nel furetto

Nel gatto la malattia ha un’incidenza molto inferiore al cane, anche se è comunque possibile che si manifesti.  Per fortuna in molti casi ​il sistema immunitario del gatto è in grado di combattere lo sviluppo delle larve. Quando però il parassita adulto riesce ad arrivare nella localizzazione definitiva, date le ridotte dimensioni delle arterie polmonari e delle camere cardiache del gatto, può dare sintomi anche molto più gravi ed improvvisi.
In genere rimane asintomatica per lungo tempo; può in seguito presentare una sindrome acuta, anche con morte improvvisa, caratterizzata da sintomi respiratori come tosse, dispnea ed emottisi. Il vomito è un altro sintomo molto frequente in questo animale.

Nel Furetto la sintomatologia da Filariosi si presenta spesso come sindrome molto grave. Le ridotte dimensioni dei vasi e del cuore di questo animale lo rendono più velocemente suscettibile all’insorgenza di sintomi gravi quali anoressia, debolezza, tosse, insufficienza cardiaca. Molto spesso può avere un esito letale.

Negli ultimi anni inoltre è stata associata all’infestazione da Dirofilaria Immitis anche l’infezione da Wolbachia, un batterio in grado di facilitare la sopravvivenza delle filarie nei mammiferi e di intensificare i processi infiammatori dati dall’infestazione.

Diagnosi e profilassi della filaria:‌ il valore della prevenzione

Se diagnosticata in tempo la filariosi cardiopolmonare è una patologia che può essere trattata in maniera efficace tramite terapia specifica; in alcuni casi la terapia può durare anche molto a lungo.
Purtroppo in alcuni pazienti i sintomi sono subdoli e ad insorgenza cronica; questo determina il rischio di intervenire quando la malattia è già in fase avanzata e di conseguenza che la terapia abbia minor probabilità di successo.
Per questo la prevenzione è lo strumento più efficace per proteggere la salute dei nostri amici a quattro zampe. Andiamo a vedere in cosa consiste la profilassi.

La profilassi preventiva della filariosi

Per una corretta prevenzione è necessario combinare un’azione di prevenzione dal morso del vettore ed un’azione di profilassi contro le larve che potrebbero essere già state iniettate.

  • La prevenzione della puntura di insetti, tra cui la zanzara, si ottiene con il ricorso a prodotti repellenti in grado di tenere lontane le zanzare ed altri artropodi (spot on, collari, spry). Esistono anche repellenti a base di oli essenziali naturali (come l’olio di Neem).
  • Profilassi: evita che le eventuali larve iniettate nel circolo possano svilupparsi a parassita adulto. Per una corretta profilassi possiamo scegliere tra più soluzioni:
     ​​- somministrare un prodotto per bocca o applicare uno spot-on a base di Ivermectina /Milbemicina Ossima/ Moxidectina/ Selamectina/ una volta al mese nel periodo di maggior attività del vettore (da marzo ad Ottobre)
    – somministrare​ un prodotto iniettabile long-acting a base di Moxidectina che protegge i nostri animali per tutto l’anno

Entrambi i trattamenti devono essere effettuati preferibilmente nei mesi primaverili.
Non tutti i piani terapeutici sono possibili, validi e sicuri indistintamente per tutti i tipi di paziente. A seconda della specie, della razza, delle possibilità gestionali, il proprietario viene guidato dal Medico Veterinario per scegliere il piano terapeutico più adatto al proprio animale.
Considerando che i cani infetti potrebbero non mostrare sintomi anche per molti mesi, risulta necessario, prima di iniziare qualsiasi tipo di trattamento profilattico, effettuare dei test diagnostici per escludere una possibile infestazione asintomatica.

Test di screening e diagnosi della filariosi

Tutti i pazienti che effettuano la profilassi per la prima volta devono prima essere sottoposti ad un test di screening
Nelle aree endemiche il consiglio è di effettuare un test di controllo almeno ogni 2 anni, anche se il paziente viene sottoposto a profilassi.
Lo screening consiste in un test rapido ambulatoriale, che si effettuato attraverso un semplice prelievo di sangue.
​Il test rileva se sono presenti gli antigeni di Dirofilaria Immitis circolanti nel sangue, rilasciati dalle femmine adulte del parassita. Sono rilevabili dopo circa 5 mesi dall’infestazione.
A questo può essere associato il test di Knott, che va a valutare invece la presenza di microfilarie nel circolo.


Il paziente può essere sottoposto a profilassi se risulta negativo. Se invece risulta positivo al test bisogna procedere con esami di approfondimento per valutare lo stadio della malattia in atto. (ecocardiografia, radiografie toraciche, esami del sangue ecc).

Scegli di proteggerlo

I medici della clinica sono a tua disposizione per valutare il caso specifico di ogni singolo paziente e a consigliarvi il piano di prevenzione e profilassi più adatto al vostro animale!
La filariosi purtroppo in Piemonte è ancora molto diffusa: proteggere nel modo adeguato i tuoi amici significa anche contribuire ad arrestare la diffusione della malattia.

Attenzione al cioccolato! per i cani è un alimento molto pericoloso

Cosa si intende per triadite del gatto?

La triadite del gatto è una sindrome molto comune tra i nostri felini domestici ed è caratterizzata dalla concomitante infiammazione di fegato (e/o vie biliari), pancreas e/o intestino.

Dal momento che la sindrome interessa più organi bisogna ricordare che non sempre tutti e tre gli elementi sono coinvolti in egual misura: alcuni soggetti potranno sviluppare un’infiammazione più marcata a livello di fegato ed intestino, altri di pancreas ed intestino.
Solo di rado, invece, abbiamo pancreatite ed epatite insieme, in assenza di un coinvolgimento intestinale.
Di solito la triadite insorge in soggetti adulti – anziani, con un’età compresa tra i 6 e i 9 anni. Invece razza e sesso del gatto sembrano non avere alcun legame con la probabilità che la sindrome si manifesti.

Come si sviluppa la triadite? e perché colpisce soprattutto i gatti?

La triadite colpisce soprattutto il gatto perché, a differenza di quanto avviene ad esempio nei cani, il dotto pancreatico ed il dotto biliare principale (coledoco) nei felini si fondono insieme in un unico canale prima di sbocciare nel duodeno a livello della papilla duodenale.
Questo significa che nel gatto fegato pancreas e intestino hanno stretti rapporti anatomici, che sono all’origine delle altrettanto strette connessioni fisio-patologiche che interessano i tre organi.

Il meccanismo patogenetico della triadite non è univoco. Questo significa che non siamo sicuri di come abbia origine questa sindrome.
Alcuni autori hanno riportato casi di “disfunzione dello sfintere di Oddi” (lo sfintere a livello di papilla duodenale preposto allo svuotamento del contenuto di succhi pancreatici e bile contenuti del dotto): una patologia piuttosto frequente nell’uomo, ma meno comune nei nostri felini.

Molti autori suggeriscono invece che alla base di tutto vi sia un’alterazione della flora microbica intestinale, con conseguente sovracrescita di batteri potenzialmente patogeni e loro successiva ascesa verso pancreas e fegato attraverso la papilla duodenale, in corrispondenza dello sbocco comune.
Questo meccanismo di origine della patologia su base infettiva è possibile, oltre che per via ascendente (risalita dei batteri lungo il tratto gastroenterico), attraverso una traslocazione di batteri attraverso la parete intestinale, facilitata da una sensibilizzazione/suscettibilità della stessa quando colpita da un processo infiammatorio cronico, come avviene in corso di IBD.

La maggior parte degli autori, in ogni caso, è d’accordo nel considerare come causa scatenante principale della triadite una risposta autoimmune che si sviluppa in corso di infiammazione cronica intestinale (IBD), spesso di natura allergica/alimentare, in alcuni casi anche secondaria ad un processo infettivo. Questa infiammazione si estende poi anche a fegato e pancreas, data la stretta correlazione tra i tre distretti.

Qualunque sia la causa catenante, è importante ricordare che uno dei sintomi cardine della triadite, il vomito, è spesso responsabile dell’esacerbazione del processo. L’ aumento della pressione intraduodenale durante i conati, infatti, favorisce il reflusso del contenuto intestinale nel pancreas e nelle vie biliari e instaura un meccanismo a catena.

Quali sono i sintomi più comuni della triadite del gatto? Come riconoscerli?

sintomi più comuni legati alla triadite consistono in una riduzione più o meno marcata dell’ appetito (disoressia/anoressia) con conseguente perdita di peso, senso di nauseavomitoletargiaapatiadisidratazionemantello arruffato (per ridotta attività di self-grooming), diarrea o stipsi, mucose tendenti al giallo (= itteriche), dolore addominale.

Non sempre, nello stesso soggetto, osserviamo tutti questi sintomi contemporaneamente: la combinazione di essi dipende infatti dagli organi coinvolti dalla patologia e dalla gravità di tale coinvolgimento.

Come si emette diagnosi di triadite?

Il primo passo da svolgere in caso di comparsa di uno o più sintomi tra quelli sopra elencati è l’esecuzione di esami del sangue completiesame emocromocitometrico e biochimico completo. Queste indagini consentono spesso di rilevare alcuni parametri al di fuori dei range di riferimento. Per una diagnosi più accurata si ricorre alla diagnostica per immagini: radiografia ed ecografia addominale.

Le alterazioni ematobiochimiche  che più di frequente vengono riscontrate in corso di triadite sono:

  • neutrofilia e/o leucocitosi 
  • anemia non rigenerativa
  • aumento degli enzimi epatici (ALT, AST,ALP, iperbilirubinemia)
  • azotemia
  • ipoalbuminemia
  • alterazione vitamina B12
  • alterazione folati
  • ipocolesterolemia
  • ipoproteinemia
  • iperglicemia (transitoria da stress o legata a diabete mellito concomitante)

Altrettanto frequente è riscontrare disturbi elettrolitici, in particolare ipokaliemia, ipocloremia, iponatriemia. 

Alti livelli di amilasi e lipasi nel gatto, per quanto frequenti in casi di triadite, non sono parametri altamente specifici e diagnostici. Al contrario la Lipasi pancreatica specifica felina (fPLI), se aumentata, è altamente suggestiva di pancreatite.

Un altro possibile indicatore di pancreatite in corso è l’ipocalcemia. Gli studi recenti rilevano che un marcato aumento della lipasi pancreatica specifica felina, associata ad una riduzione altrettanto marcata della calcemia, è un indice prognostico negativo per l’evoluzione della patologia.

Ricordiamo sempre che possono essere presenti, nello stesso individuo, più alterazioni patologiche contemporaneamente, e che queste possono essere più o meno gravi a seconda del grado di gravità di IBD, epatopatia e/o pancreatite concomitanti.

In caso di triadite la radiografia non è quasi mai decisiva per la diagnosi, anche se può fornire alcuni indizi utili.
L’ecografia addominale è invece la tecnica di diagnostica per immagini più utile ed utilizzata. L’ecografia permette di identificare:

  • inspessimenti patologici della parete intestinale o alterazioni della sua stratigrafia in corso di IBD
  • alterazioni della motilità intestinale
  • variazioni dell’ecogenicità di pancreas e fegato
  • presenza di versamento addominale
  • dilatazione del dotto biliare
  • colelitiasi
  • fango biliare
  • aumento di volume e/o arrotondamento dei margini degli organi in questione

Quando la componente infiammatoria intestinale appare preponderante sono indicate altre indagini specialistiche:

  • l’endoscopia intestinale
  • la ricerca di batteri e parassiti specifici dell’apparato gastroenterico (da siero o da feci) attraverso tecniche biomolecolari garantite da laboratori esterni.


La diagnosi definitiva di triadite nel gatto è possibile solo attraverso un’esame istopatologico di pancreas, fegato ed intestino. Questo esame è più invasivo rispetto alle tecniche di cui abbiamo parlato. Per questo viene preso in considerazione raramente e solo nei pazienti clinicamente stabili.
Molte altre patologie del gatto (Peritonite Infettiva Felina, Linfoma intestinale del gatto, Lipidosi epatica o altre Epatopatie e Malattie infettive gastrointestinali) possono determinare segni clinici sovrapponibili a quelli riscontrati in corso di tradite. Quindi occorre sempre considerare tutte queste possibilità tra le diagnosi differenziali, soprattutto nei casi in cui il soggetto risponda poco o per nulla alle terapie mirate alla risoluzione di una sospetta triadite.

Come si gestisce e tratta la triadite del gatto

Il trattamento della triadite richiede, nella maggior parte dei casi, il ricovero del paziente.
Solo in questo modo, infatti, è possibile monitorare il soggetto in maniera costante, somministrare la terapia in maniera adeguata, garantire ad un paziente con poco o nullo appetito un apporto nutrizionale giornaliero sufficiente, valutare l’evoluzione della patologia giorno per giorno.

Nell’animale ospedalizzato è possibile somministrare la terapia farmacologica per via iniettabile, ottimizzando l’assorbimento e quindi l’efficacia dei farmaci impiegati.

La terapia è mirata:

  1. alla gestione di nausea e vomito, attraverso la somministrazione di farmaci antiemetici (maropitant, metoclopramide,..) e gastroprotettori (omeprazolo, sucralfato,..)
  2. alla stimolazione del senso di appetito grazie all’utilizzo di farmaci contro l’anoressia/disoressia ( mirtazapina, ciproeptadina,..)
  3. alla gestione del dolore e dell’infiammazione (FANS, oppioidi,cortisonici..)
  4. all’ utilizzo di antibiotici ad ampio spettro spesso associati ad antibiotici attivi su batteri anaerobi (fluorochinoloni, cefalosporine, metronidazolo, tilosina,..)
  5. all’integrazione di vitamine E, C, B12, taurina, arginina, etc.
  6. all’utilizzo di integratori con funzione epato-protettrice (silimarina, glutatione, S- adenosilmetionina, acido ursodesossicolico)
  7. all’utilizzo di fermenti lattici per ridurre il dismicrobismo intestinale indotto dallo stato patologico e dall’utilizzo di antibiotici e contrastare la diarrea conseguente ad un deficit dell’assorbimento intestinale (prebiotici, probiotici, fermenti lattici ad azione compattante,..)
  8. alla reidratazione del paziente, ripristino degli squilibri elettrolitici e all’allontantanamento dei metaboliti tossici accumulatisi nel letto vascolare conseguenti a processi ossidativi tipici degli stati patologici attraverso la fluidoterapia endovenosa.

Che ruolo ha l’alimentazione nella gestione della sindrome?

Un aspetto da non sottovalutare mai è l’alimentazione: un gatto con triadite difficilmente si alimenta spontaneamente, soprattutto nella fase acuta della malattia, e non è infrequente che l’animale vada incontro ad una carenza energetica e di proteine, condizione che può comportare numerose complicazioni come la riduzione della sintesi e della riparazione tissutale, un alterato metabolismo dei farmaci, una diminuzione dell’efficienza del sistema immunitario e la sarcopenia.

Inoltre i gatti non dovrebbero mai rimanere a digiuno per più di tre giorni: il rischio in questo caso è l’insorgenza di una degenerazione del fegato molto difficile da trattare, la cosiddetta lipidosi epatica. Nei casi di anoressia persistente bisognerebbe intraprendere un’alimentazione enterale attraverso l’utilizzo di sondini rino-esofagei o rino-gastrici, attraverso cui somministrare una dieta bilanciata, piccoli pasti frequenti con consistenza liquida ad elevata densità calorica per ridurre la quantità di cibo da somministrare.

Nei casi di disoressia, in cui l’appetito è conservato ma capriccioso, si possono invece selezionare proteine di alto valore biologico ed elevata digeribilità. A differenza di quello che si potrebbe presumere i gatti affetti da pancreatite sono in grado di tollerare diete con un tenore medio-alto di grassi; anzi, i grassi rendono più appetibile l’alimento. Quindi non devono essere eliminati del tutto se non quando sia presente grave diarrea.

Nel caso in cui il problema sia prevalentemente costituito da IBD è bene utilizzare una fonte proteica o un alimento che contenga proteine idrolizzate. In ultima analisi, si ricorda che la fibra solubile può essere utile per la sua capacità di ridurre al minimo l’assorbimento intestinale di ammoniaca.

Prognosi e conclusioni

Se individuata in tempo, ed affrontata con il giusto approccio medico farmacologico, la prognosi della triadite è favorevole. Dobbiamo però ricordare che esistono anche situazioni particolari, spesso legate a gravi compromissione dello stato clinico del paziente, in cui essa può diventare da riservata ad infausta.

Quando i nostri gatti iniziano a presentare uno o più sintomi tra quelli che abbiamo descritto è perciò sempre consigliata una visita veterinaria tempestiva. Questo ci permette di individuare il problema in tempo utile e aumentare la possibilità di guarigione rapida e completa.

Nella maggior parte dei casi, con il giusto supporto medico e un’ospedalizzazione di durata variabile in relazione alla gravità della patologia, i nostri pazienti ritornano più in forze di prima.

Quando fare il richiamo del vaccino per cane e gatto? Ci aiutano i test anticorpali

Da sempre siamo abituati a recarci dal veterinario ogni anno per il richiamo del vaccino per il nostro cane o il nostro gatto.
Negli ultimi anni, tuttavia, sono stati condotti alcuni interessanti studi dai quali emerge che la frequenza di vaccinazione contro le malattie infettive può essere ridotta.
Anche le linee guida elaborate dalla WSAVA (World Small Animal Veterinary Association) sostengono che grazie a una corretta vaccinazione in  cuccioli e gattini si crea una solida immunità. Quando ciò avviene gli anticorpi contro la maggior parte delle malattie infettive permangono nel circolo sanguigno a livelli tali da essere considerati protettivi per circa 3 anni.
Vediamo nel dettaglio di cosa si tratta e come possiamo stabilire per quanto tempo sono davvero efficaci le vaccinazioni.

Il richiamo del vaccino per il cane

La WSAVA classifica i vaccini in base alla gravità delle malattie che prevengono. Abbiamo quindi vaccini

  • core : quelli contro malattie molto gravi e verso cui dovrebbero essere vaccinati gli animali di tutto il mondo. Nel cane i vaccini core sono quelli contro cimurro, Adenovirus canino e Parvovirus canino.
  • non core : quelle vaccinazioni che vanno effettuate solo in determinate aree geografiche, a seconda del rischio di quell’animale di contrarre tale malattia.

La WSAVA consiglia di eseguire la prima vaccinazione core non prima della 6°-8° settimana di vita del cucciolo. Prima infatti il cucciolo è protetto, dal momento che nel circolo sanguigno del cucciolo sono ancora presenti numerosi anticorpi materni trasmessi nelle prime ore di vita attraverso il colostro.

Alla prima somministrazione devono quindi seguire dei richiami vaccinali ogni 2-4 settimane fino ai 4 mesi di vita del cucciolo. Infine un ultimo richiamo si effettua intorno ai 6 o 12 mesi di vita. Conclusa questa prima tranche di vaccinazioni il cucciolo acquisisce una solida immunità che resisterà per molti anni senza necessità di eseguire ulteriori vaccinazioni.

Per quanto riguarda il richiamo del vaccino dopo l’anno di età, il consiglio è di vaccinare una volta all’anno contro le malattia batteriche (ad esempio contro la Bordetella, spesso responsabile delle stizzose tossi autunnali, e contro la Leptospirosi, una malattia che può essere trasmessa anche all’uomo e che trova nei roditori il principale veicolo di diffusione) mentre per i vaccini core sarà necessario un richiamo ogni 3 anni.

Il richiamo del vaccino per il gatto

I vaccini considerati core nel gatto sono quelli contro i virus della panleucopenia felina, l’Herpesvirus felino e il Calicivirus.

Anche per i gattini valgono le stesse indicazioni che abbiamo fornito per i cuccioli: iniziare con il primo vaccino non prima delle 6-8 settimane di vita ed effettuare un richiamo vaccinale ogni 2-4 settimane fino ai 4 mesi di vita del gattino. Seguirà infine un ultimo richiamo ai 12 mesi di vita del gattino.

Per i richiami, la WSAVA divide i gatti in soggetti ad alto e basso rischio:

  • gatti ad alto rischio di contrarre malattie infettive: sono quelli che hanno possibilità di uscire di casa e incontrare/scontrarsi con altri gatti
  • gatti a basso rischio: sono gli esemplari che vivono unicamente in casa.


Per i soggetti a basso rischio il consiglio è di eseguire una vaccinazione di richiamo ogni 3 anni. Proprio in questo caso è importante, quindi, eseguire una visita annuale e magari ricorrere ad un test anticorpale che ci confermi il persistere dell’immunità del paziente. Questo passaggio è necessario perché anche i gatti di casa potrebbero avere bisogno di ricovero e degenza, trovarsi magari malati in clinica con basse difese immunitarie e vicini ad altri animali.

Invece per i gatti che escono e hanno contatti con altri è consigliata una vaccinazione di richiamo annuale contro Herpesvirus e Calicivirus e ogni 3 anni contro la panleucopenia felina.
Merita un discorso a parte la vaccinazione contro la leucemia felina (FeLV): anche se questo vaccino è classificato come non core alle nostre latitudini risulta fortemente consigliato per tutti i gatti che hanno possibilità di uscire all’esterno. Per garantire una corretta immunità sono necessarie 2 dosi di vaccino somministrate a 2-4 settimane di distanza, a partire da non prima delle 8 settimane di età.

I test anticorpali: cosa sono e a cosa servono

Oggi esistono dei test anticorpali per la determinazione degli anticorpi nei confronti di ParvovirusCalicivirus ed Herpesvirus nel gatto e per Cimurro, Epatite infettiva e Parvovirosi nel cane. Per eseguire il test basta un prelievo di sangue.

Lo scopo di questi test è valutare lo stato di immunità dei cani e dei gatti riguardo agli agenti patogeni: li usiamo per determinare il titolo di IgG ( = immunoglobuline, ovvero anticorpi) prima e dopo la vaccinazione e valutare così la durata dell’immunità.

In pratica questi test ci aiutano

  • prima di ricorrere al richiamo del vaccino per il cane o il gatto, per sapere se e quando sia necessario
  • dopo aver effettuato il vaccino (specie se si tratta di cuccioli) per valutare il titolo anticorpale e capire quindi se la vaccinazione “è andata a buon fine”, facendo produrre al paziente un adeguato numero di anticorpi.

Infine due precisazioni: la prima è che non ci sono evidenze circa la potenziale pericolosità della ripetizione annuale della vaccinazione anziché la sua ripetizione ogni 3 anni, salvo per quei soggetti in cui sia nota una sensibilità agli antigeni virali/batterici o agli eccipienti della preparazione vaccinale che viene inoculata.

Questo significa che, salvo casi particolari, non è pericoloso per i nostri animali ripetere la vaccinazione anche con maggior frequenza di quanto necessario. Tuttavia, come ricordano le linee guida stabilite dalla WSAVA, ogni scelta in quest’ambito dev’essere valutate dal Medico Veterinario di caso in caso e non ci sono procedure standard che valgano in assoluto per tutti.

Parlane con il medico

Il ricorso ai test anticorpali è uno strumento molto utile per valutare in modo più approfondito lo stato di salute dei nostri amici animali, l’efficacia delle vaccinazioni fatte e la necessità di ricorrere a un richiamo. In questo senso il rapporto con il vostro medico veterinario è sempre determinante, proprio perché può darvi indicazioni specifiche riguardo alle esigenze di ogni singolo paziente e tutelarne così al meglio il benessere.

Quando serve il ricovero veterinario: come funziona il reparto degenza di una clinica

Quando serve il ricovero veterinario: come funziona il reparto degenza di una clinica

La parola allo specialista

Dott.ssa Sara D'Agostino

Animali non convenzionali

Il reparto di degenza è strutturato per poter accogliere e ricoverare pazienti con necessità specifiche di cura.
Il ricovero veterinario per i nostri amici a quattro zampe è infatti consigliato quando le loro condizioni cliniche non sono stabili e, nei casi più gravi, ne compromettono la sopravvivenza.

Può anche essere utile per gestire situazioni meno gravi: ad esempio per pazienti che attendono un intervento chirurgico, nel post-operatorio o per la somministrazione di terapie che non si possono eseguire a casa.
In clinica abbiamo anche la possibilità di effettuare dei ricoveri in Day Hospital per eseguire vari esami diagnostici. Durante questa esperienza si cerca sempre di soddisfare le necessità di ogni specie, dalla più piccola alla più grande: cani, gatti, conigli e altri piccoli mammiferi.. ma anche rettili ed uccelli.

Quando serve e come funziona il ricovero veterinario

Durante il periodo di degenza l’animale viene ricoverato in un box attrezzato a poterlo ospitare. La regola più importante per una buona degenza è quella di creare uno spazio tranquillo, sereno, luminoso e confortevole. Questo contribuisce per quanto possibile a ridurre lo stress a cui i nostri pazienti sono già sottoposti a causa della patologia in atto e gli consente, per quanto possibile, rilassarsi. Tutelare il loro benessere serve anche a favorire una più rapida guarigione.

Al momento del ricovero in reparto viene compilata una scheda identificativa con tutti i dati del paziente; la scheda del ricovero veterinario viene aggiornata ogni giorno con le terapie e le procedure diagnostiche necessarie (esami del sangue, radiografie, ecografie ecc..) stabilite di volta in volta dal medico responsabile.
Ciascun animale viene rivalutato e monitorato dal personale veterinario e dalle infermiere in modo costante attraverso la visita completa e il monitoraggio dei parametri clinici più volte al giorno, in base alle condizioni. Questa procedura ci permette di valutare l’evolversi della patologia e agire in modo tempestivo.

Il personale è presente nel reparto degenza 24 ore su 24, anche di notte e garantisce costantemente cure adeguate ai pazienti.

Specie diverse, esigenze diverse

Ogni tipologia di paziente ha esigenze ambientali diverse, quindi è importante per il loro benessere psicofisico organizzare i box in modo corretto e gestire al meglio gli spazi al loro interno.

I box hanno dimensioni differenti a seconda della tipologia di paziente che ospitano (cane, gatto o animale esotico), sono tutti dotati di chiusure antifuga e sono in acciaio inox per semplificare l’igienizzazione e la disinfezione giornaliera. In più, per ulteriore comfort dei pazienti, dotiamo i box di coperte che vengono cambiate, lavate ed igienizzate ogni giorno, ciotole per cibo e acqua, lettiere ecc.

Ma per quanto si possa creare un ambiente confortevole il ricovero può essere fonte di stress. Questo è vero soprattutto per i gatti, che soffrono maggiormente l’essere lontani dal loro ambiente domestico e dal nucleo familiare, e per gli animali esotici che già normalmente richiedono un ambiente particolare, idoneo alla specie.

Ai cani sono dedicati i box più ampi e, se le condizioni cliniche lo permettono, vengono portati in passeggiata più volte al giorno sia dal personale della clinica che dai proprietari stessi durante la visita, per permettere di espletare i loro bisogni fisiologici e per stare un po’ all’aria aperta.

I gatti sono sistemati in box più piccoli, dotati di lettiere e ciotole, con a disposizione delle coperte extra che utilizzano per nascondersi, in modo da farli sentire maggiormente tranquilli e protetti.

Infine gli animali più piccoli come ad esempio criceti, ratti, cavie o conigli vengono sistemati in piccole gabbie con vari arricchimenti ambientali per rendere il ricovero meno stressante.

Quando invece i pazienti sono impossibilitati nei movimenti, non possono essere portati in passeggiata o non sono in grado di utilizzare la lettiera ricorriamo all’utilizzo di griglie e traversine assorbenti, che permettonio di mantenere un costante stato igienico. Inoltre i pazienti vengono spazzolati e puliti ogni giorno, anche per poter instaurare un rapporto di fiducia con gli stessi ed abbassare i livelli di stress.

Le cure durante il ricovero veterinario

Gli animali che si trovano in ricovero veterinario sono ovviamente messi in condizione di effettuare fluidoterapia e farmacoterapia personalizzata in base alle loro esigenze mediche. In reparto abbiamo a disposizione tutti gli strumenti essenziali: pompe a infusione per la fluidoterapia, farmaci, strumenti per rilevare i parametri vitali (pressione sanguigna, temperatura, glicemia ecc) ed apparecchi per l’ossigenoterapia.

Ma soprattutto nel reparto degenza è sempre presente il personale medico veterinario e paramedico, che è in grado di fornire una risposta immediata e di qualità ai pazienti, sopratutto in caso di gravi patologie.

Quando e come avviene il primo contatto?

Il personale medico cerca sempre di empatizzare con il paziente: costruire una relazione è importante per rendere la loro permanenza meno stressante possibile e stabilire un rapporto di fiducia che facilita manipolazioni e terapie. Questo vuol dire rispettare la loro ampia diversità, che è ciò che ci affascina, attrae e conquista.

Il primo contatto con il paziente avviene già in sala visita da parte sia del medico che del tecnico veterinario; in questo frangente gli animali possono infatti provare e manifestare diverse emozioni e sensazioni. Tra queste l’impossibilità di fuggire da un ambiente sconosciuto che può sfociare in aggressività.

In ogni caso un approccio graduale è la scelta migliore da fare tutte le volte in cui sia possibile. I nostri amici a quattro zampe hanno infatti uno specifico galateo di approccio che utilizzano anche con noi. I comportamenti ed i segnali che ci mostrano, ci aiutano ad interpretare il loro stato d’animo … imparare a percepirli e comprenderli è ciò che permette al personale medico di evitare scontri ed approcci aggressivi e rendere il periodo di ricovero veterinario un’esperienza positiva.

Tuttavia non ci si deve stupire o preoccupare se talvolta questo approccio non è possbile. Le situazioni di emergenza esigono di intervenire velocemente e con prontezza: salvaguardare la loro vita e stabilizzare le condizioni cliniche diventa prioritario.

Cosa può fare il proprietario quando il proprio animale è ricoverato?

Durante un ricovero veterinario è possibile fare visita al proprio animale nel reparto di degenza in orari definiti e concordati con il personale del reparto stesso. È possibile anche avere notizie telefoniche sullo stato di salute generale, sugli esiti degli esami e sulla progressione della patologia. Il personale medico è a disposizione per ogni aggiornamento, confronto e consulto.

Le visite sono garantite sopratutto in caso di pazienti con situazioni di salute gravi o critiche e i proprietari possono lasciare coperte ed oggetti personali per rendere il box in cui vengono ospitati il più accogliente possibile.

Se durante la visita sentite suonare qualche strumento, non allarmatevi!… sono studiati per poter seguire delle procedure farmacologiche personalizzate ed essere rivalutate e riviste dal personale in ogni momento.

E se li trovate a proprio agio? Non sarebbe la prima volta! Spesso i proprietari si stupiscono di quanto i propri animali siano traquilli in box e accettino le manipolazioni mediche … ma anche questo è parte del nostro mestiere, che svolgiamo con passione e competenza. Se ne accorgono anche in pazienti!

Per tutti questi motivi vi invitiamo ad affrontare sempre con la maggior serenità possibile la prospettiva di un ricovero veterinario, e di rivolgervi sempre con fiducia al vostro medico di riferimento.

Perché rivolgersi a un educatore cinofilo, anche se non abbiamo un cane aggressivo

Negli ultimi decenni la convivenza tra noi e i nostri animali d’affezione è diventata via via sempre più strettaCondividiamo gli spazi, certo, ma anche ogni altro aspetto della quotidianità: svaghi, relazioni, stili di vita.
Se fino a qualche anno fa, quindi, solo chi si trovasse a gestire un cane aggressivo o avesse esigenze specifiche di addestramento (come le forze dell’ordine, per fare un esempio) sentiva l’esigenza di ricorrere ad un addestratore cinofilo, oggi sappiamo che trovare una buona sinergia con i nostri cani è importante per tutelare il benessere di tutti.

Chi è un educatore cinofilo

Dobbiamo anzitutto ricordare che un formatore cinofilo è anzitutto un professionista, che per poter svolgere in maniera legittima la sua attività deve conseguire un’abilitazione che gli consente di operare sul territorio italiano, o persino europeo.

Si tratta quindi di un esperto che può declinare le sue competenze sia come rieducatore comportamentale, in grado di aiutare un cane aggressivo o affetto da fobie, ma anche di occuparsi di tutti gli aspetti legati all’educazione di base.

Se infatti spesso ci si rivolge a una figura di questo tipo solo quando sorgono dei problemi, gli educatori svolgono un ruolo determinante soprattutto in una fase che potremmo definire di “prevenzione”, ossia aiutano animali e proprietari a gettare buone basi per una relazione priva di problemi patologici.

Cosa fa l’educatore cinofilo

Un educatore può intervenire a diversi livelli nel rapporto tra cani e umani, per diversi scopi.
Anzitutto conoscere: molte difficoltà nella gestione dei nostri amici animali deriva dalla mancanza di conoscenza. La possibilità di avere informazioni corrette e acquisire una sana cultura cinofila significa già disporre di ottimi strumenti per tutelare il benessere dei nostri cani.

Quindi educare: non soltanto il cane, o i cani. Il lavoro dell’educatore è tanto più utile quanto interviene su comportamenti, abitudini, abilità di tutta la famiglia.
Per questo la sua consulenza potrebbe essere d’aiuto anche prima che un cane arrivi in famiglia, ma si sta valutando la possibilità di un’adozione. Così come, non appena il cane arriva in famiglia, è l’aiuto di un educatore è utile per stabilire sin da subito un rapporto sereno, basato sulla fiducia reciproca e sul gioco.

Infine, quando sorgono delle problematiche importanti, di certo il ruolo dell’addestratore è fondamentale nel ripristinare il benessere del cane ed evitare che la situazione precipiti.
Le azioni di recupero comportamentale diventano necessarie quando la serena convivenza tra umani e cani viene messa a dura prova da manifestazioni patologiche: fobie verso oggetti o persone, ansia da abbandono, aggressività inter – e intra-specifica, abbaio insistente, tirare al guinzaglio … sono proprio queste situazioni particolarmente difficili quelle in cui l’intervento di un professionista diventa l’unica strada percorribile per la tutela di tutti.

Come ovvio tutte queste azioni sono rivolte a tutelare il benessere dei nostri cani: ricorrere a dei seri professionisti ci garantisce rispetto al fatto che i metodi applicati non comportino mai, in nessun modo, dolore per il cane.

Perché ricorrere ad un educatore cinofilo e qual è il suo rapporto con i medici veterinari

La Clinica Veterinaria San Paolo da molti anni collabora con gli educatori cinofili di Itaca, tanto che Marzia e Davide sono ormai quasi un pezzo della nostra squadra. Ma perché abbiamo sentito la necessità del loro supporto?

La risposta in realtà è piuttosto semplice: anche negli animali, così come in noi umani, le manifestazioni fisiche possono essere il sintomo di un disagio diverso. Oppure, al contrario, un comportamento anomalo, come quello di un cane che non riesce ad urinare durante le passeggiate e quindi imbratta casa, potrebbe essere il sintomo di una patologie come problemi urinari o cistiti croniche.

Per questi motivi le attività del medico veterinario e dell’educatore cinofilo sono sempre più sinergiche. Per noi prendersi cura del benessere dei nostri pazienti significa non soltanto preoccuparci della loro salute fisica, ma anche fare in modo che possano avere una socialità e una convivenza il più possibile serena con la loro famiglia umana, e magari anche animale.

Siamo sempre a disposizione dei clienti, per indirizzarvi nel modo più corretto non soltanto nel caso in cui vi troviate a gestire un cane aggressivo, che dimostra difficoltà nelle relazioni sociali tra intra-specifici e inter-specifici. Anche se notate dei piccoli cambiamenti caratteriali o nelle abitudini del vostro cane potrebbe essere importante ricorrere al parere di un professionista, che vi potrà aiutare anche ad avere una routine più piacevole, come fare una camminata al parco senza farsi tirare.

Se poi volete approfondire la conoscenza del mondo degli educatori e addestratori cinofili vi segnaliamo il blog di Itaca: uno strumento prezioso per conoscere sempre meglio i nostri amici e stabilire con loro una relazione davvero serena.

Leishmaniosi : tutto quello che c’è da sapere

La bella stagione è arrivata, con i primi caldi e le giornate più tiepide che preludono l’arrivo dell’estate. Purtroppo questa è anche la stagione più attesa dai fastidiosi parassiti – pulci, zecche e pappataci – per i quali coincide con il momento della massima attività. Diventa costante la minaccia alla salute dei nostri animali e la necessità di salvaguardarli con interventi di protezione adeguati è una priorità assoluta.
Una delle malattie che merita maggior l’attenzione è la Leishmaniosi: si tratta di una malattia tanto diffusa quanto grave che ormai interessa per intero il nostro Paese (un tempo era endemica solo in alcune zone del Sud, in Toscana e sulla riviera ligure).

È insidiosa perché, una volta infettato, il cane rimane per sempre un “serbatoio” del parassita: la malattia può essere tenuta sotto controllo, ma non può guarire. Non solo: se la patologia non viene adeguatamente trattata, può progredire e diventare molto grave, fino a portare in alcuni casi alla morte del cane. Proprio per questo la prevenzione è fondamentale.

Conosci il nemico

La leishmaniosi è una malattia infettiva e contagiosa causata dal parassita Leishmania Infantum trasmesso dalla puntura di piccoli insetti, i flebotomi (pappataci) che in Italia può causare sia la leishmaniosi viscerale che la leishmaniosi cutanea.

Le zone litoranee del centro e del sud sono le aree a rischio maggiore, ma negli ultimi dieci anni si è registrato un aumento dell’area di diffusione della malattia, ora presente con nuovi focolai anche in molte aree nel Nord Italia.
cani rappresentano il principale ospite; una volta infetti diventano a loro volta serbatoi di potenziale infezione per l’uomo ed occasionalmente altri animali, come gatti, bovino, ratti, cavalli.

La leishmaniosi canina è una malattia cronica grave, che provoca danni progressivi. Diagnosticarla è difficile perché i sintomi sono poco specifici e mai chiaramente testimoni della patologia in atto (patognomonici). La terapia risulta solo parzialmente efficace, non esente da possibili ricadute, comunque mai risolutiva.

Per questi motivi è necessario prevenire il contagio quanto possibile ed eseguire test per rilevare un eventuale contagio. Ma come si trasmette la Leishmaniosi?

Il Flebotomo: un vampiro silenzioso

La Leishmania per diffondersi ha bisogno del flebotomo vettore, l’insetto che il parassita sfrutta a proprio vantaggio per compiere parte del suo ciclo biologico.

La caratteristica di questo insetto sta proprio nell’essere silenzioso. Il pappatacio infatti non emette il tipico sibilo che preannuncia l’arrivo della zanzara. Lo dice persino il suo nome: questo insetto “pappa e tace”, cioè si nutre in maniera silenziosa.

È molto piccolo (1.5-3.5 mm), di color giallo ocra, attivo nelle ore notturne, dalle 20,00 alle 6,00 circa. Depone le uova nel terreno umido, nei muri delle case vecchie abbandonate, dove c’è materiale organico in decomposizione (foglie, lombrichi, altri insetti).
I focolai quindi si possono generare nei luoghi in cui il flebotomo trova un habitat favorevole e la presenza di cani che possono essere infettati (ha bisogno del loro sangue per nutrirsi). Inoltre i pappataci necessitano di temperature elevate e non sono domestici (difficilmente entrano in casa).

Solo le femmine di pappatacio si nutrono di sangue, al fine di permettere la maturazione delle uova. Se un flebotomo femmina punge un mammifero infetto può ingerire amastigoti intracellulari (probabilmente anche extracellulari) che passano direttamente nella parte addominale dell’intestino. All’interno del pasto di sangue gli amastigoti si trasformano in promastigoti mobili che si moltiplicano attivamente.

Successivamente i parassiti migrano verso la parte anteriore dell’intestino, dove diventano promastigoti metaciclici, le forme infettanti per l’ospite vertebrato (cane) e quindi si localizzano nelle strutture pungitrici. Il tempo minimo in cui si realizzano queste trasformazioni (pasto di sangue – promastigoti metaciclici) è di 5-6 giorni (fino a 19-20, dipende soprattutto delle condizioni climatico-ambientali). Quando il flebotomo infetto punge un altro cane per nutrirsi, deposita nella cute i promastigoti , che quando vengono riconosciuti dai macrofagi del cane vengono “inglobati”: è così che da promastigoti si trasformano in amastigoti e si moltiplicano per semplice divisione binaria.

Immaginate ora tutti quei macrofagi: all’interno di ogni singolo macrofago, il promastigote perde la sua piccola coda e comincia a replicarsi, causando la lisi del macrofago. Sempre più macrofagi vengono così infettati e gli amastigoti viaggiano per le vie linfatiche; man a mano infettano tutti gli organi/tessuti fino a portarsi al midollo osseo dove i monociti (precursori dei macrofagi) vengono prodotti.

Quali sono e come sono cambiate nel tempo le aree critiche per la leishmaniosi

Fino a qualche anno si riteneva che la leishmaniosi fosse presente in maniera significativa soltanto nelle zone tropicali e subtropicali, in tutto il bacino del Mediterraneo, comprese le isole.
Già da tempo, però, a causa del riscaldamento globale e della sempre più frequente movimentazione dei cani infetti a seguito dei loro proprietari, assistiamo alla costante comparsa di nuovi focolai in zone prima considerate sicure, come il Nord Italia.

Se guardiamo in particolare al Piemonte notiamo che sono state accertate ben tre differenti aree in cui la leishmaniosi canina è diventata endemica (Torino, Ivrea, Casale Monferrato, Acqui Terme), con una sieroprevalenza che va dal 3,9% al 5,8%. Anche in Valle d’Aosta è stato identificato un possibile focus.

In queste aree la colonizzazione può essere avvenuta spontaneamente dalle zone costiere o in seguito agli aumentati movimenti di persone dalle aree mediterranee. Nelle zone interessate di Piemonte e Valle d’Aosta la presenza stagionale dei flebotomi va dalla seconda metà di maggio a settembre.

Cosa succede quando il cane contrae la leishmaniosi?

Quando il cane viene punto diventa a sua volta portatore del parassita ed il periodo di incubazione è molto variabile: può durare anche vari anni.
La variabilità di risposta all’infezione dipende principalmente dalle difese immunitarie del cane.

Un cane risultato positivo al test può vivere per molto tempo prima di manifestare sintomi, ma può comunque contribuire a diffondere la malattia.
Ricordiamo che la leishmania non viene trasmessa direttamente da cane a cane o da cane a persona. Quindi la vicinanza o il possesso di un cane infetto comportano un rischio del tutto risibile l’uomo, visto che in una zona endemica saranno molti milioni i pappataci infetti potenzialmente in grado di pungere.

I sintomi: come interpretare un quadro non sempre evidente

I cani che manifestano sintomi clinici, possono presentare, in ordine decrescente di prevalenza:

  • Linfoadenomegalia (ingrandimento patologico dei linfonodi)
  • Splenomegalia (ingrandimento patologico della milza)
  • Dermatite desquamativa (soprattutto su muso, zampe e arti)
  • Ulcere nella zona peri-oculare (“aspetto di cane anziano”),
  • Onicogrifosi (crescita abnorme delle unghie)
  • Anemia
  • Uveite (infiammazione della tunica media dell’occhio)
  • Epistassi (sangue dal naso)
  • Poliartrite e sinovite
  • Insufficienza renale

Come si arriva alla diagnosi di Leishmaniosi?

Per effettuare diagnosi di Leishmaniosi fino a poco tempo fa si faceva ricorso ad un test in grado di rilevare, attraverso un prelievo di sangue, la presenza di anticorpi; in questo modo si poteva capire se un cane era venuto a contatto o meno con il parassita, ma non se avesse sviluppato la malattia o fosse solo venuto in contatto con il parassita stesso. Inoltre non aveva un carattere di ripetitività, per cui ad esempio a laboratori differenti corrispondevano titoli anticorpali differenti.

Oggi abbiamo a disposizione nuove metodiche, chiamate ELISA e PCR, che ci permettono, sempre attraverso il prelievo di sangue di individuare la presenza del parassita Leishmania nell’organismo tramite il reperimento del suo DNA. In altri termini questo secondo esame permette di sapere con assoluta certezza se un cane è ammalato.

Debellare la Leishmaniosi non è possibile, per questo è necesserio prevenirla!

Nonostante siano state fatte ipotesi e tentativi, ad oggi non abbiamo la possibilità di eliminare le colonie di pappataci, né adulti né allo stadio larvale. Di conseguenza l’unica forma di prevenzione possibile è quella che limita il contatto tra vettore e ospite mediante l’uso topico di principi attivi ad effetto protettivo contro la puntura dei flebotomi.

La protezione del cane dalla puntura del vettore è perciò un intervento prioritario, sia per proteggere l’animale dall’infezione, sia per limitare la diffusione del parassita quando il cane è già infetto.
In quest’ottica è importante che anche i cani già affetti da leishmaniosi svolgano una corretta prevenzione che li protegga dalla punture dei flebotomi.

Il periodo giusto per fare prevenzione

Il periodo d’applicazione orientativo delle misure protettive è limitato all’attività dei flebotomi vettori. In Italia si possono individuare tre periodi:

  • Nord Italia: metà maggio – fine settembre
  • Centro Italia: metà maggio – metà ottobre
  • Sud Italia: inizio maggio – metà novembre

La profilassi contro la leishmaniosi

Lo schema di profilassi della leishmaniosi nel cane ha carattere indicativo e va adattato alle singole situazioni. Per proteggere i nostri cani occorre l’azione combinata di: repellenza (protezione meccanica e chimica), vaccinazione e comportamenti efficaci.

  1. Repellenza

La scelta del tipo di protezione (meccanica o chimica) sarà di volta in volta valutata da parte del veterinario dopo aver considerato:

  • la disponibilità da parte del proprietario
  • l’ambiente in cui vive il cane
  • il modo di somministrazione (spray, spot-on, collare) e inizio protezione delle specialità medicinali con “conclamata” efficacia
  • la frequenza dei trattamenti in base all’inizio e alla durata dell’efficacia delle varie specialità medicinali.

La profilassi per il cane avviene tramite l‘applicazione sull’animale di prodotti repellenti (in genere piretroidi naturali o sintetici come la deltametrina e la permetrina), contenuti in collari, spray o fiale spot-on da applicare sulla cute, che hanno dimostrato la capacità di contrastare le punture dei pappataci.

  1. Comportamenti efficaci
  • far dormire l’animale in casa durante le ore notturne, applicando zanzariere a maglie fitte alle finestre
  • limitare le passeggiate del cane all’alba ed alla sera
  • fare uso di prodotti repellenti specifici, espressamente progettati ed indicati per proteggere dalla puntura dei flebotomi
  • rivolgersi sempre ad un medico veterinario per avere consigli sulla scelta dei presidi migliori e far controllare regolarmente il cane al fine di verificare che non sia stato infettato
  1. Vaccinazione

Il vaccino ha cambiato radicalmente l’approccio alla prevenzione della patologia, perché a differenza dei repellenti protegge il cane dall’interno, potenziando il sistema immunitario, rinforzandolo e riducendo così il rischio per il cane di contrarre la malattia.

Insieme per contrastare la Leishmaniosi

Nella cura, ma soprattutto nella prevenzione di questa patologia, il dialogo tra il proprietario e il medico veterinario è determinante. Ti suggeriamo di rivolgerti sempre al veterinario sia per attuare la profilassi che per avere informazioni sul progresso delle metodologie di contrasto alla Leishmaniosi, come il vaccino. In Clinica troverai un’intero team dedicato alla medicina preventiva che saprà guidarti nella scelta migliore per il tuo cane.

 

La laser-terapia in medicina veterinaria

Cos’è il laser?

Il laser non è nient’altro che luce. Il termine “LASER”, infatti, è un acronimo che sta per “Light Amplification by Stimulated Emission of Radiation” ovvero “amplificazione della luce mediante emissione stimolata di radiazione“.
Questo particolare tipo di raggio di luce ha trovato applicazione nella medicina umana fin dagli anni ‘70 del ‘900. Da allora è entrata nell’uso corrente e al giorno d’oggi viene utilizzata in moltissime branche specialistiche: dalla medicina estetica alla dermatologia, dalla chirurgia oculistica alla medicina riabilitativa, dall’odontoiatria alla scleroterapia. La laser terapia è stata quindi adottata anche dalla medicina veterinaria.

Curare con la luce: l’uso terapeutico del laser

La laser-terapia, o fotobiomodulazione, sfrutta l’energia fotonica penetrante per ottenere un cambiamento nel tessuto animale (o umano) colpito dal raggio luminoso.
La maggior parte dei dispositivi veterinari utilizzati emette luce tramite un processo di amplificazione ottica basata sull’emissione di radiazioni elettromagnetiche; in altre parole, questi macchinari sono sorgenti di radiazioni elettromagnetiche che emettono energia sotto forma di fotoni.
La luce prodotta riesce a penetrare all’interno del corpo dell’animale e a produrre un “cambiamento”.
Questa proprietà del laser trova interessanti risvolti pratici nella professione veterinaria sia in ambito clinico sia chirurgico e il ricorso agli strumenti basati su questa tecnologia si sta diffondendo su larga scala.
Il successo della laser terapia in veterinaria è legato ad alcuni indiscutibili vantaggi:

  •  L’assenza di invasività della pratica: il ricorso al laser, infatti, rende non necessaria sedazione o anestesia
  • L’assenza di dolore legato alla sua applicazione
  • La quasi completa assenza di effetti collaterali (l’unica assoluta controindicazione rimane l’esposizione diretta degli occhi per cui si rende necessario indossare sempre speciali occhiali durante la seduta).

Laser terapia in veterinaria:‌ veniamo alla pratica

Sono molti gli effetti terapeutici dei trattamenti laser impiegati nella medicina veterinaria: l’alleviamento del dolore e dell’infiammazione, l’immunomodulazione e la stimolazione della guarigione delle ferite e della rigenerazione tissutale.

Alleviamento del dolore

La fotobiomodulazione può essere un’importante componente dell’approccio multimodale al dolore grazie alla sua capacità di bloccare diverse risposte biochimiche e fisiologiche lungo la via di conduzione dello stimolo dolorifico.

Il laser può quindi essere utilizzato con buoni risultati nel trattamento del dolore acuto o del dolore cronico (ad esempio dolorabilità del cavo orale, auricolare, addominale, cervicale, articolare…).
Possiamo intervenire anche sul dolore post-operatorio grazie alla capacità di riduzione dello stimolo infiammatorio con l’utilizzo del laser sia in sede intra-operatoria sia post-operatoria .

La guarigione delle ferite

Un’altra interessante applicazione della laser-terapia riguarda la capacità di ripristinare la normale funzione biologica delle cellule stressate o danneggiate.

Gli effetti cellulari della terapia fotobiomodulatrice possono essere classificati in primari, ovvero luce-indotti, e secondari:

  • Effetti primari: una reazione fotochimica diretta avviene quando i fotoni emessi dal laser colpiscono i mitocondri e le membrane cellulari e l’energia fotonica viene assorbita da cromofori endogeni e convertita in energia chimica all’interno delle cellule.
  • Effetti secondari: sono portati dall’amplificazione delle fotoreazioni primarie. Vengono stimolati il metabolismo cellulare e la regolazione della via di conduzione di segnali responsabili della guarigione delle ferite come migrazione cellulare, sintesi di DNA e RNA, mitosi e proliferazione cellulare.

Tutto ciò determina cambiamenti fisiologici a livello cellulare come l’attivazione di fibroblasti, macrofagi e linfociti, rilascio del fattore della crescita e rilascio di neutrasmettitori, vasodilatazione e sintesi del collagene.

In altre parole, il laser ha la capacità di stimolare e accelerare la riproduzione e la crescita cellulare grazie a una riparazione più veloce dei tessuti danneggiati e alla regolazione della risposta infiammatoria.
Grazie al laser durante il processo di guarigione delle ferite assistiamo a:

  • Formazione di un plug contenente piastrine e fibrina;
  • Invasione della ferita da parte di neutrofili, monociti e macrofagi;
  • Proliferazione di cheratinociti e fibroblasti dal bordo della ferita
  • Formazione di tessuto di granulazione
  • Maturazione del tessuto di granulazione e delle fibre di collagene e vascolarizzazione

Terapie dermatologiche (ma non solo)

La laser-terapia trova ottime applicazioni in dermatologia, grazie alle capacità antinfiammatorie e immunomodulatrici, in particolare nel trattamento di:

  • granulomi da leccamento
  • “hot-spot” o piodermiti superficiali
  • ascessi o fistole delle ghiandole perianali
  • pododermatiti

… e non solo. La dermatologia ad oggi è forse il campo in cui la fotobiomodulazione è maggiormente conosciuta ed applicata ma le potenziali applicazioni della laser-terapia sono innumerevoli.
Esistono studi sull’efficacia di questa tecnica per infiammazioni orali come parodontiti o stomatiti feline, disordini muscoloscheletrici e osteoartriti, per le affezioni di alte e basse vie respiratorie (asma felina, collasso tracheale, tracheiti…), per le condizioni neurologiche (dolore neuropatico, neoplasie intracraniche, mielopatia degenerativa…), per le problematiche addominali (prostatiti, gastriti, cistiti, pancreatiti…), addirittura può essere utilizzata con efficacia in seguito a morsi di vipera.

Pododermatite in un coniglio. Si può osservare il miglioramento della condizione podale in 3 sedute distanziate di circa 7 giorni.

Applicazioni del laser terapeutico negli animali non convenzionali

Le esperienze di laser terapia nella clinica veterinaria

In questo ampio panorama di applicazioni la Clinica San Paolo sta attualmente sfruttando l’efficacia del laser per il trattamento di molte patologie, anche quelle che riguardano i cosiddetti “animali non convenzionali“.

Un ambito in cui stiamo ottenendo ottimi risultati è la cura della pododermatiti dei conigli.
La pododermatite è una patologia estremamente diffusa tra i nostri conigli domestici sia a causa della conformazione dei piedi, dove manca il cuscinetto plantare tipico invece di cani e gatti, sia per il tipo di terreno su cui sono costretti a camminare per via della vita in appartamento.
Abbiamo evidenziato importanti miglioramenti della condizione podale già dai primi trattamenti, con importante diminuzione dell’iperemia cutanea, dell’edema e della dolorabilità della parte.

Ferita aperta in una cavia. Si piò osservare l’evoluzione della cicatrizzazione della ferita in 10 giorni (3 sedute di laser-terapia a distanza di 5 giorni).

Un’altra applicazione molto utilizzata sugli animali non convenzionali riguarda l’acceleramento della guarigione delle ferite, in particolare di quelle chirurgiche. Tra gli animali non convenzionali risulta particolarmente complessa la cicatrizzazione di siti chirurgici di cavie, ratti e criceti a causa della difficoltà ad impedire l’auto-asportazione dei punti. Su queste specie abbiamo iniziato ad utilizzare il laser già nell’immediato post-operatorio e abbiamo osservato una notevole diminuzione dei tempi di cicatrizzazione.

Da non dimenticare inoltre il potenziale utilizzo della laser-terapia nelle ferite aperte, al fine di decontaminare e stimolare la cicatrizzazione di ferite/siti chirurgici il cui processo di cicatrizzazione non sta procedendo nel modo desiderato.

Il diabete nel gatto e nel cane

Dottore, il mio cane beve tanto e fa tanta pipì….è normale?

Quando decidiamo di accogliere un animale da compagnia di solito ci impegniamo anzitutto nel preparare un ambiente ideale all’interno della sua nuova casa e ci preoccupiamo di svolgere un check up completo delle sue condizioni di salute.
Di rado pensiamo che è altrettanto importante occuparci di alcune “incombenze” burocratiche per tutelare al meglio il benessere di questo nuovo componente della nostra famiglia. In alcuni casi, come il microchip dei cani, queste pratiche sono addirittura un obbligo.
​Per questo è importante conoscere quali sono le principali pratiche da espletare nei vari momenti che accompagneranno la convivenza con il nostro pet, a chi rivolgersi e perché sono tanto importanti.

Ma cos’è il diabete mellito?

Quando decidiamo di accogliere un animale da compagnia di solito ci impegniamo anzitutto nel preparare un ambiente ideale all’interno della sua nuova casa e ci preoccupiamo di svolgere un check up completo delle sue condizioni di salute.
Di rado pensiamo che è altrettanto importante occuparci di alcune “incombenze” burocratiche per tutelare al meglio il benessere di questo nuovo componente della nostra famiglia. In alcuni casi, come il microchip dei cani, queste pratiche sono addirittura un obbligo.
​Per questo è importante conoscere quali sono le principali pratiche da espletare nei vari momenti che accompagneranno la convivenza con il nostro pet, a chi rivolgersi e perché sono tanto importanti.

Quando decidiamo di accogliere un animale da compagnia di solito ci impegniamo anzitutto nel preparare un ambiente ideale all’interno della sua nuova casa e ci preoccupiamo di svolgere un check up completo delle sue condizioni di salute.
Di rado pensiamo che è altrettanto importante occuparci di alcune “incombenze” burocratiche per tutelare al meglio il benessere di questo nuovo componente della nostra famiglia. In alcuni casi, come il microchip dei cani, queste pratiche sono addirittura un obbligo.
​Per questo è importante conoscere quali sono le principali pratiche da espletare nei vari momenti che accompagneranno la convivenza con il nostro pet, a chi rivolgersi e perché sono tanto importanti.

Come si diagnostica il diabete nel gatto e nel cane?

La terapia si basa, sia nel cane che nel gatto, sulla somministrazione giornaliera di insulina e, in particolare nel gatto, sull’alimentazione corretta.
Nel caso dei cani l’insulina dovrà essere somministrata (a parte rare eccezioni) per tutta la vita dell’animale. Invece nel gatto per alcuni casi c’è possibilità di remissione dalla malattia e sospensione della terapia.
Seguire alcune semplici regole in modo costante e impostare una vera e propria routine giornaliera è importante e può semplificare la gestione da parte del proprietario e migliorare la risposta alla terapia.
Ecco le risposte alle più frequenti domande in merito:

Come conservare e somministrare l’insulina?

L’insulina va conservata in frigorifero ed è molto importante utilizzare le siringhe apposite.

Quando sommistrare l’insulina?

L’insulina va somministrata attraverso un’iniezione sottocutanea, preferibilmente ai lati del torace, la mattina e la sera (preferibilmente ogni 12 oremantenendo la stessa ora).

Qual’è la giusta alimentazione in caso di diabete?

L’alimentazione dovrebbe essere specifica per pazienti diabetici ma è bene che sia il vostro veterinario a consigliarvi l’alimento più corretto nel caso particolare del vostro animale. Se possibile è preferibile comunque dividere la dose di cibo giornaliera in due pasti uguali da somministrare ogni 12 ore, appena prima dell’iniezione di insulina.
È importante che cani e gatti obesi raggiungano un peso normale attraverso la
dieta e un’adeguata attività fisica.

C’è una relazione tra diabete e sterilizzazione?

È consigliato sterilizzare le femmine appena possibile, specie se già colpite dalla patologia, poiché gli ormoni prodotti durante l’estro rendono difficile il controllo della glicemia.

Quali sono le possibili complicanze?

Nel cane complicanze comuni nel lungo periodo sono lo sviluppo di cataratta (opacizzazione del cristallino dell’occhio che colpisce circa l’80% dei cani con diabete mellito) e nel gatto lo sviluppo di neuropatie (circa il 10% dei pazienti). Altre complicanze possono essere lo sviluppo di pancreatiti e infezioni delle vie urinarie ricorrenti.
Un’importante complicanza, in entrambe le specie, può essere lo sviluppo di chetoacidosi, una condizione grave che si manifesta con anoressia, vomito, grave abbattimento e richiede l’ospedalizzazione dell’animale.

I controlli necessari in caso di diabete

Soprattutto nel primo periodo, al fine di impostare la dose di insulina corretta per ogni paziente, saranno necessari alcuni controlli presso il veterinario … e alcuni controlli a casa!
Dal veterinario verranno controllati i valori di glicemia, di fruttosamine e glucosio nelle urine ma è importante il ruolo del proprietario per capire se i segni clinici (aumento della produzione di urine, della sete, della fame e il peso) sono sotto controllo.
In genere serve qualche mese per ottenere un buon controllo della malattia … è importante quindi avere pazienza!

Concludendo…

Il diabete è una malattia facilmente diagnosticabile che richiede però molta pazienza e impegno per la gestione terapeutica da parte del proprietario e del nostro amico a quattro zampe!
Seguendo le indicazioni del veterinario, un’alimentazione e un’attività fisica adeguate cani e gatti diabetici possono avere una buona prognosi e un’ottima qualità di vita!