Cardiomiopatia ipertrofica

La cardiomiopatia ipertrofica è la patologia cardiaca più comune nel gatto, che colpisce circa un gatto su cinque. Le razze di gatti più colpite sono il Maine Coon, il Ragdoll, lo Sphinx, il British Shorthair, il Bengala, il Siberiano e il Perisiano. Tuttavia tale patologia si può comunemente riscontrare anche in altre razze, compreso il comune gatto europeo. L’età media di insorgenza è circa 6-7 anni, anche se a volte può presentarsi più precocemente intorno ai 2-3 anni di età.

Cosa succede nei gatti con cardiomiopatia ipertrofica?

Tale patologia determina un ispessimento anomalo delle pareti del ventricolo sinistro, interferendo con la capacità del cuore di “rilassarsi” tra una contrazione e l’altra. La fase di rilassamento tra ogni contrazione cardiaca è chiamata diastole e, se ciò non avviene correttamente, il cuore non può riempirsi di sangue in modo efficace. Se grave, può portare a insufficienza cardiaca.

Quali sono i primi sintomi della patologia?

Nella fase iniziale della malattia i gatti possono non mostrare alcun segno e apparire del tutto normali. Inoltre, un certo numero di gatti con cardiomiopatia potrebbe non sviluppare mai dei sintomi. Tuttavia, mentre in alcuni gatti la progressione della cardiomiopatia è lenta, in altri può essere piuttosto rapida. Nelle fasi avanzate, i sintomi evidenti possono essere difficoltà respiratorie, stanchezza e paralisi degli arti, soprattutto quelli posteriori. I primi segni della malattia cardiaca possono essere rilevati durante un esame clinico dal veterinario, prima dell’insorgenza di qualsiasi segno evidente. Questo è uno dei motivi per cui ogni gatto dovrebbe essere controllato almeno una volta all’anno da un veterinario (e idealmente più spesso nei gatti più anziani). I primi segnali di allarme che il veterinario potrebbe rilevare includono alterazioni nell’auscultazione del cuore come la presenza di soffio cardiaco o alterazioni del ritmo cardiaco. Raramente, l’unico sintomo che si verifica può essere la morte improvvisa. Purtroppo però bisogna anche sapere che molto spesso tale patologia non da’ nemmeno alterazioni alla visita clinica, per cui l’unico modo di diagnosticarla, è effettuando una ecografia al cuore, detta ecocardiografia.

Quali sono le maggiori complicazioni?

Le complicazioni più comuni della cardiomiopatia ipertrofica sono l’insufficienza cardiaca e il tromboembolismo arterioso.

Insufficienza cardiaca

Avviene quando la funzione cardiaca è significativamente compromessa dalla cardiomiopatia. I sintomi più comuni sono difficoltà respiratoria (dispnea) e/o respiro accelerato (tachipnea). Questi sono generalmente causati da un accumulo di liquido nella cavità toracica attorno ai polmoni (chiamato versamento pleurico) o da un accumulo di liquido all’interno dei polmoni stessi (chiamato edema polmonare). Un altro sintomo precoce di insufficienza cardiaca è la ridotta capacità di esercizio fisico. Questo sintomo è molto difficile da rilevare e può presentarsi come un aumento del tempo in cui il gatto passa a riposare o dormire.

Tromboembolismo arterioso

Durante questa complicazione un trombo (coagulo di sangue) può svilupparsi all’interno di una delle camere cardiache (di solito l’atrio sinistro). Esso è inizialmente attaccato alla parete del cuore, ma può staccarsi ed essere trasportato nel sangue. Un trombo che si sposta nella circolazione sanguigna è chiamato embolo, da cui il termine “tromboembolismo”. Una volta in circolo, questi emboli possono depositarsi nelle piccole arterie e ostruire il flusso di sangue nelle regioni varie del corpo. Sebbene ciò possa accadere in diversi siti, si verifica più comunemente nel punto in cui l’aorta si divide per fornire sangue alle zampe posteriori. Questa complicanza causa un’improvvisa insorgenza di paralisi di una o entrambe le zampe posteriori, con forte dolore e notevole disagio da parte del gatto.

Come diagnosticarla?

L’ecocardiografia è la metodica per eccellenza per diagnosticare la cardiomiopatia ipertrofica e qualsiasi altra patologia cardiaca. Consente infatti di valutare le dimensioni interne del cuore, lo spessore della parete e la contrattilità del cuore. Anche se una piccola area di pelo di solito deve essere rasata per eseguire tale esame, la procedura non è invasiva o dolorosa e quindi può essere eseguita nella maggior parte dei gatti senza sedazione o anestesia.
E’ consigliata prima di ogni sedazione o anestesia per valutare il rischio anestesiologico, in seguito alla presenza di soffio o alterazioni del ritmo cardiaco oppure se il gatto presenta sintomi riferibili ad una cardiomiopatia. Inoltre, poiché la cardiomiopatia ipertrofica può non dare alcun sintomo ed è molto comune nel gatto, è consigliato eseguire uno screening ecocardiografico annuale a tutti i gatti dai 5-6 anni in poi.

Elettrocardiogramma: è una traccia elettrica dell’attività del cuore ed è molto utile per la rilevazione dei disturbi del ritmo cardiaco, che possono accompagnare la cardiomiopatia ipertrofica.

Studio radiografico del torace: è utile per mostrare i cambiamenti nella forma e nelle dimensioni complessive del cuore e per rilevare un accumulo di liquido (edema polmonare o versamento pleurico). Inoltre la ripetizione delle radiografie può anche consentire il monitoraggio dell’efficacia del trattamento dell’insufficienza cardiaca.

Qual è il trattamento?

Il trattamento dipende dalla fase della malattia.
In caso di cardiomiopatia lieve, molto spesso non è necessario nessun trattamento. Con l’aggravarsi della patologia può essere necessaria l’amministrazione di farmaci anticoagulanti o diuretici. Il trattamento tuttavia non determina la cura della patologia cardiaca, ma aiuta a tenere sotto controllo i sintomi e migliorare la qualità di vita del nostro gatto.

Micosi nei cani e nei gatti: cosa sono, come si diagnosticano e curano le infezioni da funghi

I nostri amici cani o gatti possono essere colpiti da micosi, ossia infezioni causate da funghi.

Sono patologie abbastanza comuni, al tempo stesso fastidiose. Cerchiamo quindi di capire meglio cosa sono, come si curano e soprattutto come si prevengono le micosi che minacciano il loro benessere.

Le micosi più comuni in cani e gatti: dermatofitosi

Le dermatofitosi sono infezioni causate da particolari tipi di funghi definiti cheratinolitici e cheratinofili ovvero che attaccano le strutture costituite da cheratina come il pelo e le unghie.

In base all’ospite principale, e di conseguenza dalla fonte di infezione, i dermatofiti possono essere classificati come

  • zoofili: trasmessi dagli animali
  • geofili: trasmessi dal terreno
  • antropofili: trasmessi dalle persone

È importante sapere che non necessariamente un dermatofita zoofilo avrà come unico ospite un animale. Infatti accade spesso che gli animali trasmettano funghi zoofili alle persone e, viceversa, sia un proprietario infetto a passare i funghi antropofili agli animali domestici attraverso il contatto diretto.

Tra i funghi maggiormente osservati e tipizzati troviamo:

  • Microsporum canis: da solo causa circa il 90% delle infezioni, è un fungo zoofilo e colpisce più frequentemente il gatto
  • Trichophyton mentagrophytes: il principale responsabile di dermatofitosi nella cavia e nel coniglio
  • Micropsorum gypseum: il più frequente fungo geofilo che infesta cani e gatti che vengono a contatto con la terra in cui vive
  • Trichophyton erinacei: principale agente infettivo del riccio.

Come si trasmettono le micosi

I funghi di cui abbiamo parlato si trasmettono quasi sempre per contatto diretto con un animale infetto. Più raro, ma comunque possibile, che la trasmissione avvenga attraverso i peli infetti che vengono liberati nell’ambiente in cui vive (contatto con superfici, utensili, indumenti, cucce, coperte…).

Quando l’animale entra in contatto con il fungo, questo inizia a penetrare all’interno del fusto pilifero fino a raggiungere il bulbo pilifero.

Una volta in corso l’infezione causa un quadro clinico più o meno grave a seconda di molti fattori, come lo stato generale dell’animale, la sua risposta immunitaria, la presenza di malattie concomitanti, l’età, la razza.

Quadri clinici

Le micosi nei cani

Nel cane osserviamo infezioni da dermatofiti il più delle volte in cuccioli, randagi/trovatelli e cani che sono venuti a contatto con gattini, solitamente di nuova introduzione.

Le lesioni possono avere diversi aspetti, comparire in numerosi distretti corporei e in numero più o meno alto a seconda del patogeno e della via di trasmissione.

Le lesioni si presentano in molti casi come ipotricotiche o alopeciche: vuol dire che si nota la mancanza, parziale o totale del pelo. Spesso hanno forma circolare e presentano scaglie o croste in quantità variabile, più o meno iperemiche; possono anche confluire e dare origine ad estese aree dove il pelo è mancante o molto corto.

Quando invece il fungo riesce a penetrare più in profondità, fino al derma, è possibile che si formi un kerion dermatofitico ovvero una lesione nodulare, spesso eritematosa, alopecica e crostosa. In questo caso se si rimuove la crosta si vedono dei fori multipli sulla superficie del kerion, tragitti fistolosi da cui spesso fuoriesce materiale purulento.

Le micosi nel gatto

Il gatto affetto da dermatofitosi è tipicamente un gattino trovatello o un gatto venuto in contatto con un gattino di nuova introduzione.

Le lesioni, come abbiamo già detto per quanto riguarda le micosi che colpiscono i cani, possono essere anche molto diverse per estensione e gravità. Più spesso si notano aree alopeciche o ipotricotiche circolari, spesso ricoperte da croste grigiastre oppure soltanto delle aree dove il pelo è solamente più corto rispetto agli altri distretti corporei.

I gatti che contraggono queste micosi di solito non soffrono di particolare prurito o fastidio a livello delle aree infette, ma come sempre esistono delle eccezioni.

In alcune razze predisposte e più sensibili ai dermatofiti, ad esempio i Persiani, l’infezione si manifesta con sintomi decisamente più importanti:

  • desquamazione
  • manicotti pilari, cioè materiale cheratinico o cherato-sebaceo che avviluppa il singolo pelo o un gruppo di peli
  • collaretti epidermici, ossia lesioni circolari sulla cui porzione perimetrale sono presenti delle piccole croste/forfora

Nel gatto, al contrario del cane, il kerion dermatofitico è raro. Possono invece occasionalmente formarsi degli pseudomicetomi: noduli dermici che possono fistolizzare all’esterno.

Come si diagnosticano le micosi di cani e gatti

È raro che le lesioni cutanee abbiano un aspetto così caratteristico da permettere una diagnosi certa, senza ulteriori approfondimenti. Questo è il motivo per cui nella quasi totalità dei casi è necessario eseguire test di laboratorio che ci aiutino a confermare la diagnosi clinica.

L’iter diagnostico si svolge presso il nostro laboratorio attraverso successivi step. Si comincia con i test di screening (lampada di Wood, esame tricoscopico del pelo), e quindi si passa ad esami che ci aiutano ad identificare il fungo a livello microscopico e per isolarlo in terreno di coltura.

Lampada di Wood

La lampada di Wood emette una luce ultravioletta con una lunghezza d’onda tale per cui alcuni dermatofiti (tra cui 50-70% dei Microsporum) emettono fluorescenza in vivo, cioè direttamente sull’animale.

Gli animali positivi mostrano una fluorescenza verde mela brillante sui peli. Le croste e i residui di farmaci topici possono mostrare una debole colorazione giallo-verdastra. Le scaglie cutanee e le fibre spesso hanno una rifrangenza bianca o bluastra.

Il ricorso alla lampada di Wood è un approccio molto utile nel gatto, specie nella quelli il 95% delle infezioni sono sostenute da M.Canis; non è di solito altrettanto utile per le micosi dei cani.

L’esame tricoscopico

Per questo esame occorre prevelevare alcuni peli (con una pinzetta o un pezzo di nastro adesivo). Possiamo così posizionarli su vetrino in presenza di una piccola goccia di olio minerale e/o colorante.

fusti vengono osservati al microscopio a grande e piccolo ingrandimento per esaminare le aree di interesse maggiore. Se è in corso una dermatofitosi si possono vedere peli rotti, fratturati e piccole spore che appaiono come bolle sulla superficie esterna del pelo, o poste a circondarne il fusto.

Grazie all’esame citologico riusciamo spesso a verificare la presenza dei funghi ma non a dargli un “nome e cognome”. Per questo motivo e nel caso in cui l’esame citologico risultasse negativo per la presenza di elementi fungini, ma con forte sospetto clinico di lesione dermatofitica, è importante effettuare una coltura fungina.

La coltura fungina

Per questo test preleviamo dei campioni di materiale cutaneo (peli, squame, croste) dalla lesione e li poniamo in un terreno di coltura o agar. Questo contiene sostanze nutritive che permetteranno ai dermatofiti di crescere.

Il primo segno della loro presenza è il “viraggio” di colore dell’agar. I dermatofiti infatti utilizzano le proteine del terreno determinando un passaggio di colore del terreno di coltura dal giallo al rosso. Successivamente possono formarsi delle vere e proprie colonie.

Passata generalmente una settimana o 10 giorni, se il terreno è precocemente virato e sono nate le colonie vuol dire che il campione è positivo alla presenza di dermatofiti.

Per confermare l’avvenuta crescita dei funghi patogeni occorre osservare le colonie macroscopicamente e miscroscopicamente.

Osservazione macroscopica

Riguardo a quello che siamo in grado di vedere a occhio nudo le colonie possono differire per aspetto e colore. Già queste due caratteristiche possono indirizzarci verso un tipo di dermatofita piuttosto che altri:

  • Microsporum e tricophyton: sono le colonie dei dermatofiti più frequenti, si distinguono per il colore, bianco nella parte superiore e giallo bruno in quella inferiore
  • M. canis: ha un aspetto cotonoso e ben delimitato
  • T. mentagrophytes: appare più polveroso, con raggiature
  • Colonie di colore diverso dal bianco (verde, grigio) o bianco neve sotto e sopra: non appartengono a specie patogene e sono quindi da considerarsi contaminanti.

Osservazione al microscopio

Da colonie nate da 5 giorni o più si possono eseguire prelievi per l’identificazione microscopica. Il prelievo si esegue premendo delicatamente un nastro adesivo sulla colonia, che viene poi posto su un vetrino da microscopio sul quale era depositata posta una goccia di colorante specifico.

Al microscopio è possibile identificare ife settate, micro e macroconidi. I macroconidi sono tipici e caratteristici nel Microscoporum in cui si presentano tipicamente fusiformi con pareti settate e più o meno spesse; i Tricophyton si caratterizzano invece dalla presenza di ife a spirale.

Può succedere occasionalmente che i macroconidi risultino assenti nelle colonie. Questo può verificarsi o perché la coltura è ancora troppo “giovane”, oppure perchè il ceppo è scarsamente “sporulante” e in questo caso i macroconidi possono non venir prodotti neanche col passare del tempo.

In queste evenienze, seppur rare, suggeriamo di identificare il dermatofita con tecniche molecolari in laboratori esterni.

La terapia per le micosi

La terapia si basa sia sull’utilizzo di prodotti topici (in particolare shampoo e spugnature) sia sull’utilizzo di antimicotici somministrati per via orale per molte settimane o addirittura mesi.

Se le micosi interessano cani e gatti a pelo lungo spesso si consiglia la tosatura del pelo in modo da migliorare l’applicazione dei prodotti antimicotici topici e diminuire il rischio di contaminazione ambientale.

Di fondamentale importanza è poi la decontaminazione ambientale: per farla consigliamo un il lavaggio accurato con candeggina di tutti gli strumenti venuti in contatto con il cane infetto così come la pulizia dell’ambiente in cui l’animale infetto vive usando di aspirapolvere, candeggina e presidi contenenti antifungini.

Anche se si tratta ovviamente di una circostanza ben poco piacevole come diciamo spesso il medico veterinario in questi casi è davvero il miglior alleato per guidarti nell’individuazione della patologia e nel percorso di cura. In Clinica abbiamo la fortuna di poter contare su personale con grande esperienza nel campo della dermatologia veterinaria e di un laboratorio di analisi interno in grado di poterci sostenere in tutto il percorso di diagnosi. Questo ci permette di poterci occupare delle micosi di cani e gatti in maniera completa e di far recuperare ai tuoi amici una condizione di completo benessere.

Accompagnare all’accoppiamento il proprio cane femmina

Chi si trova ad avere come amica a quattro zampe un cane, in questo caso particolare una femmina, spesso si trova a valutare, e magari a scegliere per lei, le opzioni dell’accoppiamento e quindi della gravidanza.

All’origine di questa decisione ci sono motivazioni diverse:‌ può essere il desiderio di accogliere un nuovo cucciolo, o di avviare un allevamento amatoriale, oppure semplicemente la volontà di condividere questa esperienza con il proprio cane e con la propria famiglia.

L’arrivo di una cucciolata, però, è un risultato meno scontato da ottenere di quanto molti proprietari possano immaginare. In questo, così come in altri momenti delicati della vita dei nostri amici animali, il veterinario mantiene un ruolo centrale, ed è certamente la miglior fonte di informazioni e di indicazioni sul da farsi.

Quali sono allora i passi da compiere per i proprietari che desiderano accompagnare all’accoppiamento la propria cagna? Abbiamo provato a fare un quadro il più chiaro possibile di cosa comporti intraprendere questo percorso, da un punto di vista medico e pratico.

Valutazioni che precedono la preparazione all’accoppiamento

Prima di avviare all’accoppiamento una femmina di cane è molto importante, per tutelare la sua salute, porsi una serie di domande

Qual è l’età giusta di un cane per l’accoppiamento?

È importante non fare accoppiare i cani troppo precocemente, prima che abbiano avuto un completo sviluppo somatico. Come indicazione generale l’accoppiamento non è mai indicato prima dei diciotto mesi o del terzo calore. Io consiglierei i due anni come età minima corretta.
D’altro canto le “fattrici” (così vengono chiamate le femmine da riproduzione nel settore dell’allevamento canino) non devono neppure essere cani troppo avanti con l’età. Dal punto di vista medico il consiglio è di non fare accoppiare cani oltre i sei anni di età. Dopo i sette anni è necessario ottenere dal veterinario un certificato di idoneità alla riproduzione.

Ci sono dei problemi per l’accoppiamento legati alla taglia?

Differenti taglie possono comportare differenti tipi di rischio nell’affrontare una gravidanza. In particolare taglie molto piccole, o animali sotto taglia, possono talvolta ad andare incontro a distocie (problemi di parto). Per prevenire questo tipo di difficoltà è importante porre attenzione nella scelta del maschio: una differenza di taglia importante può aumentare i rischi di parto.

Ci sono attenzioni particolari per l’accoppiamento di una cagnetta di razza?

Prima di avviare alla riproduzione un soggetto di razza è molto importante valutare la sua salute fisica e/o il suo corredo genetico: queste precauzioni servono a prevenire le patologie di razza e quindi la loro diffusione ai cuccioli.
La patologia ereditaria più conosciuta che affligge i cani di razza è la displasia dell’anca. Non bisogna dimenticare però che ne esistono moltissime altre ereditabili, dai difetti cardiaci a quelli oculari. Inutile poi ricordare che va evitato l’accoppiamento tra consanguinei per l’alta possibilità di manifestarsi di alcuni difetti genetici.

Quante volte dovrebbe partorire una femmina?

Nel suo codice l’ENCI identifica un numero massimo di cinque gravidanze per una cagna nell’intera vita. Le gravidanze inoltre è bene siano intervallate da 12 mesi di riposo. Questo consente alla madre di recuperare uno stato fisico ottimale.

Conoscere il ciclo estrale migliora le possibilità di successo dell’accoppiamento

Abbiamo visto quindi quali sono i fattori che riguardano le condizioni generali e di salute del cane da valutare con attenzione prima che si possa avviare con serenità all’accoppiamento.

Un altro elemento di cui tenere conto è la scelta di un maschio adatto alla riproduzione: è consigliabile infatti evitare soggetti troppo giovani per la loro scarsa esperienza/capacità nella monta.

Una volta compiuti questi passaggi è il momento di rivolgersi al veterinario, che può dare un aiuto prezioso nell’individuare il momento esatto del periodo fertile.

Per farlo ovviamente occorre conoscere approfonditamente il ciclo estrale della cagna. Questo perché i giorni a disposizione per ottenere una gravidanza sono soltanto 4-5 al massimo!

Ecco come funziona il ciclo estrale

Il ciclo estrale della cagna può essere suddiviso in quattro fasi:

  • L’anaestro: fra tutti è il periodo più lungo. Si tratta infatti di un periodo di circa cinque-sei mesi nella quale possiamo considerare l’apparato riproduttore femminile in una fase di “stand by”. A differenza dell’anaestro le altre tre fasi si susseguono molto più rapidamente e sono caratteristiche della fase che attiva la fertilità della cagna. Dal punto di vista clinico corrispondono alla manifestazione del calore ed al suo ritorno successivo alla fase di anaestro.
  • Proestro: nel corso di questa fase la femmina, sulla spinta di variazioni ormonali, manifesta cambiamenti visibili. Tra questi si possono notare turgore ed ingrandimento della vulva, perdite ematiche e cambiamenti comportamentali (attrazione verso il maschio ma con rifiuto dell’accoppiamento, aumento della marcatura urinaria, vagabondaggio). Questa è la fase avviene in cui si verifica il picco della concentrazione degli estrogeni.
  • Estro: per quanto riguarda gli ormoni questa fase vede in sequenza il calo improvviso degli estrogeni ed il picco dell’ormone LH, che porta all’ovulazione. A due-tre giorni da questo picco avviene l’ovulazione e comincia a crescere esponenzialmente la concentrazione di progesterone. Se si sottopone in questo momento la cagna a citologia vaginale noteremo che l’epitelio vaginale appare cheratinizzato alla microscopia. È in questo momento che, anche dal punto di vista clinico, la cagna accetta l’accoppiamento: invita il maschio spostando la coda ed inarcando il dorso.
  • Fertilità: è un periodo molto breve ed si verifica da 2 a 5 giorni dopo l’ovulazione. In media avviene 12 giorni dopo il proestro, ma può cadere anche in un periodo variabile tra i 5 ed i 25 giorni successivi.
  • Diestro: è una fase caratterizzata dal calo del progesterone e dal ritorno graduale di tutte le componenti modificate allo stato di anaestro.

Cosa fare perché l’accoppiamento abbia successo?

Con un intervallo di tempo così ridotto com’è possibile realizzare un accoppiamento che conduca alla gravidanza della nostra cagnolina?

Se i proprietari posseggono sia il cane maschio che la femmina è molto probabile che ci troviamo di fronte ad un falso problema: basterà dar corso ai processi naturali e lasciare che “facciano da soli”.

Di solito in questi casi i proprietari, al contrario, si rivolgono al veterinario per avere le indicazioni necessarie ad intercettare il calore e quindi per separare i soggetti al momento opportuno, in particolare in tutti quei casi in cui non si desidera una gravidanza e gli animali non sono sterilizzati.

Quando invece i proprietari decidono di fare accoppiare la propria cagnetta con il cane di un’altra persona (magari residente fuori regione), oppure pensano di ricorrere ad un’inseminazione artificiale, è fondamentale intercettare questo breve periodo per avere la massima possibilità di successo.

Il ruolo del veterinario nel successo dell’accoppiamento

Il ruolo del veterinario è dunque quello di mettere a disposizione la sua conoscenza e la sua esperienza, e ricavare delle indicazioni utili che si basano sulla valutazione di differenti aspetti:

  • atteggiamento comportamentale
  • manifestazioni cliniche
  • citologia vaginale
  • dosaggi ormonali

Nonostante l’estrema variabilità della presentazione dei calori (talvolta molto manifesti, talvolta silenti), della durata delle fasi del ciclo estrale di ogni soggetto e di molteplici altri fattori, con questa metodologia si riesce ad essere piuttosto precisi.

Se ragioniamo su un piano puramente teorico l’esame ormonale in grado di dare le informazioni più precise, e quindi da consigliare, è quello dell’LH. Il valore di questo ormone infatti indica in maniera esatta il momento dell’ovulazione. Tale parametro però è molto difficile da conservare e viene analizzato in pochissimi laboratori.

Al contrario risulta più pratico calcolare il valore nel sangue del progesterone. Anche in questo caso, se si effettuano due o tre misurazioni al momento opportuno, si riesce ad individuare esattamente il periodo di fertilità.

Non possiamo sapere con precisione quando avviene l’ovulazione, ma siamo certi che il valore del progesterone durante tale evento varia da 4 ad 8 microg/ml, raddoppiando ogni giorno successivo.

A due giorni dall’ovulazione il progesterone dovrebbe pertanto misurare circa 20 microg/ml e la cagna essere fertile per soli altri 2-3 giorni.

Alla misurazione dei valori del progesterone è bene affiancare sempre un prelievo con un “cotton fioc” delle cellule della vagina. Valutarne al microscopio la cheratinizzazione permette infatti di scegliere con più precisione il tempo di esecuzione dei prelievi.

Una volta individuato il periodo fertile è consigliabile fare accoppiare il cane almeno un paio di volte oppure eseguire almeno due inseminazioni artificiali.

La semplicità della procedura è data dal fatto che possiamo eseguire in sede tutti gli esami del caso ed avere risposte praticamente in tempo reale intercettando con sicurezza il breve periodo di fertilità per un accoppiamento di successo.

Il veterinario è un valido alleato in tutto il percorso:‌ dall’accoppiamento, alla gravidanza, all’accoglienza dei cuccioli

Se l’accoppiamento ha successo, per il cane femmina e per tutta la sua famiglia umana si apre una nuova esperienza, altrettanto entusiasmante e delicata. In questa situazione la figura del veterinario risulta ancora fondamentale per gestire in sicurezza la gravidanza prima e il parto poi. Avremo sicuramente l’occasione di approfondire nel blog tutti questi aspetti.

Lo scopo di questo articolo, così come degli altri che mettiamo a disposizione di tutti, è quello di fornire gli strumenti giusti per capire meglio le problematiche legate alla salute dei nostri animali, in questo caso rispetto alla sfera riproduttiva del cane.

Il consiglio che emerge da tutte le considerazioni fatte è quindi l’importanza di affidarsi ad un medico veterinario esperto quando si decide di far vivere al proprio cane l’esperienza dell’accoppiamento. La competenza di un professionista, infatti, permette di valutare insieme il percorso migliore e poter a vivere a pieno questa fantastica esperienza.

Microchip per cani, gatti e furetti: come funziona l’Anagrafe Animali d’Affezione

Quando decidiamo di accogliere un animale da compagnia di solito ci impegniamo anzitutto nel preparare un ambiente ideale all’interno della sua nuova casa e ci preoccupiamo di svolgere un check up completo delle sue condizioni di salute.
Di rado pensiamo che è altrettanto importante occuparci di alcune “incombenze” burocratiche per tutelare al meglio il benessere di questo nuovo componente della nostra famiglia. In alcuni casi, come il microchip dei cani, queste pratiche sono addirittura un obbligo.
​Per questo è importante conoscere quali sono le principali pratiche da espletare nei vari momenti che accompagneranno la convivenza con il nostro pet, a chi rivolgersi e perché sono tanto importanti.

Cos’è l’anagrafe degli animali d’affezione

L’Anagrafe degli Animali D’Affezione (ex Anagrafe Canina) è una banca dati che raccoglie le informazioni relative all’identificazione di cani, gatti, furetti e dei loro proprietari.
​Ogni Regione gestisce la propria anagrafe a cui possono accedere soltanto i veterinari operanti sul territorio di competenza della stessa.

Esiste poi l’Anagrafe degli Animali d’Affezione nazionale, in cui confluiscono i dati inviati dalle singole Regioni. Tuttavia i cittadini ed i veterinari “privati” possono consultare questa anagrafe solo per risalire al luogo in cui è stato registrato l’animale. Per avere informazioni riguardo al proprietario occorre rivolgersi all’anagrafe regionale competente.

Per i cani già dal 1991 è obbligatorio registrare all’Anagrafe degli Animali d’Affezione tutti i soggetti presenti sul territorio italiano.
Invece per gatti ed i furetti la registrazione è obbligatoria solo se c’è necessità di condurli all’estero. Altrimenti è possibile effettuare un’iscrizione su base volontaria.

Esistono poi anche le cosiddette “banche dati private” a cui ci si può registrare su base volontaria:

  1. Anagrafe Nazionale Felina realizzata dall’ANMVI
  2. Anagrafe dei Conigli realizzata dall’AAE-Conigli ONLUS

Come si identificano gli animali da compagnia? Il microchip per cani gatti e furetti

Il microchip a partire dal 2004 è l’unico metodo di identificazione riconosciuto.

Cos’è il microchip?

​Si tratta di un dispositivo di materiale inerte (vetro biocompatibile) di dimensioni simili ad un chicco di riso, che viene applicato a livello del sottocute del collo sinistro.
​Prima del 2004 l’identificazione dei cani poteva avvenire anche tramite l’applicazione di un tatuaggio a livello dell’interno coscia (una pratica decisamente più dolorosa).

Il microchip contiene un trasmettitore GPS?

Questa è una delle domande che ci sentiamo porre più di frequente, quindi è importante fare chiarezza. Il microchip NON contiene un dispositivo GPS, ma soltanto un codice a 15 cifre tramite il quale sarà possibile identificare l’animale ed il suo proprietario.

Come viene letto il microchip?

La lettura del microchip può essere effettuata tramite appositi lettori da medici veterinari sia privati sia operanti nelle ASL competenti per territori e dai vigili urbani.

Qual’è la procedura per l’applicazione del microchip ai cani?

Per legge l’applicazione del microchip nei cani deve essere richiesta dal proprietario o dal detentore della cucciolata entro i 60 giorni di vita dei cuccioli.
La pratica può essere effettuata dai medici veterinari del Servizio Veterinario dell’area A dell’ASL competente per ogni singolo territorio oppure da medici veterinari liberi professionisti autorizzati. Il medico veterinario che effettua l’applicazione del microchip provvede alla registrazione presso l’Anagrafe degli Animali d’Affezione e consegna al proprietario il certificato di identificazione.

Qual’è la procedura per l’applicazione del microchip a gatti e furetti?

Per quanto riguarda i gatti ed i furetti la legge non mette vincoli riguardo all’età in cui effettuare identificazione tramite microchip. Per queste specie l’applicazione del microchip si rende obbligatoria solo nel caso in cui si voglia condurre l’animale all’estero ai fini di ottenere il passaporto.

Cosa fare quando si acquisisce un animale da compagnia

Se il nuovo componente della nostra famiglia è già identificato con microchip quello che dobbiamo fare dal punto di vista burocratico rientra in questi tre casi:

  1. Animale identificato nella stessa regione in cui avviene l’acquisizione:
    in questo caso è sufficiente compilare un apposito modulo di cessione con i dati e le firme sia del vecchio sia del nuovo proprietario. Quindi andrà inviato entro 15 giorni all’Anagrafe degli Animali D’Affezione regionale insieme con una copia dei documenti di identità di entrambi i firmatari.
  2. Animale identificato al di fuori della regione in cui risiede l’acquirente:
    in questo caso è necessario inviare all’Anagrafe degli Animali D’Affezione regionale entro 15 giorni dalla data dell’acquisizione un modulo compilato e firmato dal nuovo proprietaerio e da un veterinario. Il modulo deve essere accompagnato dalla copia dei documenti di identità, del certificato di cessione da parte del precedente proprietario e del certificato originale di identificazione (rilasciato dalla precedente ASL).
  3. Animale identificato all’estero:
    un cane che proviene dall’estero deve sempre avere il proprio passaporto, in cui sono riportati il numero di microchip e la vaccinazione contro la rabbia. Quest’ultima deve essere stata effettuata con almeno 21 giorni di anticipo rispetto all’ingresso in Italia.
    Per animali provenienti dai Paesi extra – UE è necessario anche un foglio che attesta la verifica del titolo anticorpale nei confronti della rabbia. Il nuovo proprietario dovrà quindi presentare in Anagrafe degli Animali d’Affezione l’allegato 2, il passaporto e la copia dei documenti di identità.

Vi ricordiamo che sono vietate:

  • la cessione, la vendita ed il passaggio di proprietà di cani non identificati e registrati presso l’Anagrafe degli Animali D’Affezione.
  • la cessione di un cucciolo prima dei 60 giorni di età.

Cosa fare in caso di smarrimento o ritrovamento

In caso di smarrimento se il nostro animale è identificato con microchip bisogna fare una segnalazione al Corpo di Polizia Municipale competente per il comune dove è detenuto solitamente l’animale entro 3 giorni dall’evento.
​Bisogna inoltre compilare un apposito modulo, che può essere inviato anche all’Anagrafe degli Animali d’Affezione. Per quanto riguarda la regione Piemonte la procedura di segnalazione di smarrimento si può effettuare anche attraverso il sito internet dedicato.

Se invece sospettiamo che si tratti di un furto bisogna sporgere denuncia presso una stazione dei Carabinieri ed inviare una copia della stessa all’Anagrafe degli Animali d’Affezione.

Nel caso in cui, invece, in cui ritroviamo un cane vagante siamo obbligati per legge a fare segnalazione al Corpo di Polizia Municipale competente per il Comune in cui è stato ritrovato. In questo caso non è possibile trattenere con sé l’animale. Sarà il personale del Corpo di Polizia Municipale ad occuparsi di contattare gli enti preposti, da cui il proprietario potrà essere contattato in seguito alla lettura del microchip del cane.

Cambio di residenza

Il cambio di residenza, se comporta anche un cambio di domicilio dell’animale da compagnia, deve essere sempre segnalato entro 15 giorni al Servizio Veterinario dell’ASL di competenza, compilando un modulo ed allegando allo stesso una copia dei documenti di identità.

Viaggi all’estero: il microchip per cani gatti e furetti è necessario per ottenere il passaporto

In base ad un Regolamento Europeo del 2013 tutti i cani, i gatti ed i furetti devono essere accompagnati da un apposito passaporto per potere essere condotti all’estero .

Soltanto il Servizio Veterinario dell’ASL può rilasciare questo documento. Per ottenerlo sono necessarie le seguenti pratiche:

  • Identificazione dell’animale tramite microchip ed iscrizione dello stesso nell’Anagrafe degli Animali d’Affezione.
  • Vaccinazione della rabbia dopo aver effettuato l’applicazione del microchip. L’ASL potrà rilasciare il passaporto dopo almeno 21 giorni da tale vaccinazione

Attenzione! Vi sono poi dei requisiti particolari in base allo Stato estero in cui ci si vuole recare. Ad esempio, quasi tutti gli Stati Extra UE richiedono un esame per la titolazione del vaccino contro la rabbia ed alcuni richiedono anche un trattamento antiparassitario specifico poco prima della partenza. Quindi, prima di intraprendere qualsiasi viaggio all’estero, vi consigliamo di informarvi accuratamente delle normative vigenti nello Stato in cui vi state per recare (ad esempio tramite le apposite sezioni presenti sui siti delle ambasciate e dei consolati).

Decesso

Nel momento in cui, purtroppo, si verifichi il decesso di un animale da compagnia regolarmente identificato tramite microchip il proprietario è tenuto ad inoltrarne la segnalazione all’Anagrafe degli Animali d’Affezione entro 15 giorni dall’evento. Tale segnalazione può essere effettuata tramite l’invio di un modulo apposito (allegato 7) oppure, in Piemonte, tramite un apposito sito internet .

Veterinario e anagrafe

Anche nell’identificazione dei nostri animali d’affezione, quindi, nell’applicazione del microchip e nella gestione dei documenti che consentono la loro circolazione il ruolo del medico veterinario è quello di un importante alleato nell’assicurare benessere e serenità. Per qualsiasi informazione riguardo a queste tematiche scrivi alla Clinica.

Il cane può rimanere asintomatico per molto tempo, anche per anni. L’insorgenza della malattia infatti è per lo più di tipo cronico e porta a sintomi progressivi.
La gravità dei sintomi dipende dalla gravità dell’infestazione (quanti parassiti adulti e di che dimensioni sono presenti nel paziente) e dalle dimensioni del paziente stesso (in animali di piccole dimensioni anche infestazioni di minore entità sono in grado di dare sintomi più gravi e a più rapida evoluzione).

Ecco alcuni tra i sintomi causati dalla filariosi che possiamo riscontrare nei nostri cani:

  • Intolleranza all’esercizio ed affanno durante l’attività fisica, calo delle prestazioni (questi sintomi sono più evidenti in cani da lavoro o sottoposti ad intensa attività fisica)
  • Tosse
  • dispnea, cioè difficoltà a respiratore, da lieve a grave
  • Dimagrimento cronico
  • Episodi di sincopi (svenimenti), soprattutto durante o dopo l‘esercizio fisico.
  • Insufficienza cardiaca congestizia destra: patologia cardiaca grave in grado di dare anche ascite (raccolta di liquido in addome) e formazione di edemi periferici
  • Ipertensione polmonare
  • Anemia ed emolisi (rottura dei globuli rossi)
 

Attenzione al cioccolato! per i cani è un alimento molto pericoloso

Cosa si intende per triadite del gatto?

La triadite del gatto è una sindrome molto comune tra i nostri felini domestici ed è caratterizzata dalla concomitante infiammazione di fegato (e/o vie biliari), pancreas e/o intestino.

Dal momento che la sindrome interessa più organi bisogna ricordare che non sempre tutti e tre gli elementi sono coinvolti in egual misura: alcuni soggetti potranno sviluppare un’infiammazione più marcata a livello di fegato ed intestino, altri di pancreas ed intestino.
Solo di rado, invece, abbiamo pancreatite ed epatite insieme, in assenza di un coinvolgimento intestinale.
Di solito la triadite insorge in soggetti adulti – anziani, con un’età compresa tra i 6 e i 9 anni. Invece razza e sesso del gatto sembrano non avere alcun legame con la probabilità che la sindrome si manifesti.

Come si sviluppa la triadite? e perché colpisce soprattutto i gatti?

La triadite colpisce soprattutto il gatto perché, a differenza di quanto avviene ad esempio nei cani, il dotto pancreatico ed il dotto biliare principale (coledoco) nei felini si fondono insieme in un unico canale prima di sbocciare nel duodeno a livello della papilla duodenale.
Questo significa che nel gatto fegato pancreas e intestino hanno stretti rapporti anatomici, che sono all’origine delle altrettanto strette connessioni fisio-patologiche che interessano i tre organi.

Il meccanismo patogenetico della triadite non è univoco. Questo significa che non siamo sicuri di come abbia origine questa sindrome.
Alcuni autori hanno riportato casi di “disfunzione dello sfintere di Oddi” (lo sfintere a livello di papilla duodenale preposto allo svuotamento del contenuto di succhi pancreatici e bile contenuti del dotto): una patologia piuttosto frequente nell’uomo, ma meno comune nei nostri felini.

Molti autori suggeriscono invece che alla base di tutto vi sia un’alterazione della flora microbica intestinale, con conseguente sovracrescita di batteri potenzialmente patogeni e loro successiva ascesa verso pancreas e fegato attraverso la papilla duodenale, in corrispondenza dello sbocco comune.
Questo meccanismo di origine della patologia su base infettiva è possibile, oltre che per via ascendente (risalita dei batteri lungo il tratto gastroenterico), attraverso una traslocazione di batteri attraverso la parete intestinale, facilitata da una sensibilizzazione/suscettibilità della stessa quando colpita da un processo infiammatorio cronico, come avviene in corso di IBD.

La maggior parte degli autori, in ogni caso, è d’accordo nel considerare come causa scatenante principale della triadite una risposta autoimmune che si sviluppa in corso di infiammazione cronica intestinale (IBD), spesso di natura allergica/alimentare, in alcuni casi anche secondaria ad un processo infettivo. Questa infiammazione si estende poi anche a fegato e pancreas, data la stretta correlazione tra i tre distretti.

Qualunque sia la causa catenante, è importante ricordare che uno dei sintomi cardine della triadite, il vomito, è spesso responsabile dell’esacerbazione del processo. L’ aumento della pressione intraduodenale durante i conati, infatti, favorisce il reflusso del contenuto intestinale nel pancreas e nelle vie biliari e instaura un meccanismo a catena.

Quali sono i sintomi più comuni della triadite del gatto? Come riconoscerli?

sintomi più comuni legati alla triadite consistono in una riduzione più o meno marcata dell’ appetito (disoressia/anoressia) con conseguente perdita di peso, senso di nauseavomitoletargiaapatiadisidratazionemantello arruffato (per ridotta attività di self-grooming), diarrea o stipsi, mucose tendenti al giallo (= itteriche), dolore addominale.

Non sempre, nello stesso soggetto, osserviamo tutti questi sintomi contemporaneamente: la combinazione di essi dipende infatti dagli organi coinvolti dalla patologia e dalla gravità di tale coinvolgimento.

Come si emette diagnosi di triadite?

Il primo passo da svolgere in caso di comparsa di uno o più sintomi tra quelli sopra elencati è l’esecuzione di esami del sangue completiesame emocromocitometrico e biochimico completo. Queste indagini consentono spesso di rilevare alcuni parametri al di fuori dei range di riferimento. Per una diagnosi più accurata si ricorre alla diagnostica per immagini: radiografia ed ecografia addominale.

Le alterazioni ematobiochimiche  che più di frequente vengono riscontrate in corso di triadite sono:

  • neutrofilia e/o leucocitosi 
  • anemia non rigenerativa
  • aumento degli enzimi epatici (ALT, AST,ALP, iperbilirubinemia)
  • azotemia
  • ipoalbuminemia
  • alterazione vitamina B12
  • alterazione folati
  • ipocolesterolemia
  • ipoproteinemia
  • iperglicemia (transitoria da stress o legata a diabete mellito concomitante)

Altrettanto frequente è riscontrare disturbi elettrolitici, in particolare ipokaliemia, ipocloremia, iponatriemia. 

Alti livelli di amilasi e lipasi nel gatto, per quanto frequenti in casi di triadite, non sono parametri altamente specifici e diagnostici. Al contrario la Lipasi pancreatica specifica felina (fPLI), se aumentata, è altamente suggestiva di pancreatite.

Un altro possibile indicatore di pancreatite in corso è l’ipocalcemia. Gli studi recenti rilevano che un marcato aumento della lipasi pancreatica specifica felina, associata ad una riduzione altrettanto marcata della calcemia, è un indice prognostico negativo per l’evoluzione della patologia.

Ricordiamo sempre che possono essere presenti, nello stesso individuo, più alterazioni patologiche contemporaneamente, e che queste possono essere più o meno gravi a seconda del grado di gravità di IBD, epatopatia e/o pancreatite concomitanti.

In caso di triadite la radiografia non è quasi mai decisiva per la diagnosi, anche se può fornire alcuni indizi utili.
L’ecografia addominale è invece la tecnica di diagnostica per immagini più utile ed utilizzata. L’ecografia permette di identificare:

  • inspessimenti patologici della parete intestinale o alterazioni della sua stratigrafia in corso di IBD
  • alterazioni della motilità intestinale
  • variazioni dell’ecogenicità di pancreas e fegato
  • presenza di versamento addominale
  • dilatazione del dotto biliare
  • colelitiasi
  • fango biliare
  • aumento di volume e/o arrotondamento dei margini degli organi in questione

Quando la componente infiammatoria intestinale appare preponderante sono indicate altre indagini specialistiche:

  • l’endoscopia intestinale
  • la ricerca di batteri e parassiti specifici dell’apparato gastroenterico (da siero o da feci) attraverso tecniche biomolecolari garantite da laboratori esterni.


La diagnosi definitiva di triadite nel gatto è possibile solo attraverso un’esame istopatologico di pancreas, fegato ed intestino. Questo esame è più invasivo rispetto alle tecniche di cui abbiamo parlato. Per questo viene preso in considerazione raramente e solo nei pazienti clinicamente stabili.
Molte altre patologie del gatto (Peritonite Infettiva Felina, Linfoma intestinale del gatto, Lipidosi epatica o altre Epatopatie e Malattie infettive gastrointestinali) possono determinare segni clinici sovrapponibili a quelli riscontrati in corso di tradite. Quindi occorre sempre considerare tutte queste possibilità tra le diagnosi differenziali, soprattutto nei casi in cui il soggetto risponda poco o per nulla alle terapie mirate alla risoluzione di una sospetta triadite.

Come si gestisce e tratta la triadite del gatto

Il trattamento della triadite richiede, nella maggior parte dei casi, il ricovero del paziente.
Solo in questo modo, infatti, è possibile monitorare il soggetto in maniera costante, somministrare la terapia in maniera adeguata, garantire ad un paziente con poco o nullo appetito un apporto nutrizionale giornaliero sufficiente, valutare l’evoluzione della patologia giorno per giorno.

Nell’animale ospedalizzato è possibile somministrare la terapia farmacologica per via iniettabile, ottimizzando l’assorbimento e quindi l’efficacia dei farmaci impiegati.

La terapia è mirata:

  1. alla gestione di nausea e vomito, attraverso la somministrazione di farmaci antiemetici (maropitant, metoclopramide,..) e gastroprotettori (omeprazolo, sucralfato,..)
  2. alla stimolazione del senso di appetito grazie all’utilizzo di farmaci contro l’anoressia/disoressia ( mirtazapina, ciproeptadina,..)
  3. alla gestione del dolore e dell’infiammazione (FANS, oppioidi,cortisonici..)
  4. all’ utilizzo di antibiotici ad ampio spettro spesso associati ad antibiotici attivi su batteri anaerobi (fluorochinoloni, cefalosporine, metronidazolo, tilosina,..)
  5. all’integrazione di vitamine E, C, B12, taurina, arginina, etc.
  6. all’utilizzo di integratori con funzione epato-protettrice (silimarina, glutatione, S- adenosilmetionina, acido ursodesossicolico)
  7. all’utilizzo di fermenti lattici per ridurre il dismicrobismo intestinale indotto dallo stato patologico e dall’utilizzo di antibiotici e contrastare la diarrea conseguente ad un deficit dell’assorbimento intestinale (prebiotici, probiotici, fermenti lattici ad azione compattante,..)
  8. alla reidratazione del paziente, ripristino degli squilibri elettrolitici e all’allontantanamento dei metaboliti tossici accumulatisi nel letto vascolare conseguenti a processi ossidativi tipici degli stati patologici attraverso la fluidoterapia endovenosa.

Che ruolo ha l’alimentazione nella gestione della sindrome?

Un aspetto da non sottovalutare mai è l’alimentazione: un gatto con triadite difficilmente si alimenta spontaneamente, soprattutto nella fase acuta della malattia, e non è infrequente che l’animale vada incontro ad una carenza energetica e di proteine, condizione che può comportare numerose complicazioni come la riduzione della sintesi e della riparazione tissutale, un alterato metabolismo dei farmaci, una diminuzione dell’efficienza del sistema immunitario e la sarcopenia.

Inoltre i gatti non dovrebbero mai rimanere a digiuno per più di tre giorni: il rischio in questo caso è l’insorgenza di una degenerazione del fegato molto difficile da trattare, la cosiddetta lipidosi epatica. Nei casi di anoressia persistente bisognerebbe intraprendere un’alimentazione enterale attraverso l’utilizzo di sondini rino-esofagei o rino-gastrici, attraverso cui somministrare una dieta bilanciata, piccoli pasti frequenti con consistenza liquida ad elevata densità calorica per ridurre la quantità di cibo da somministrare.

Nei casi di disoressia, in cui l’appetito è conservato ma capriccioso, si possono invece selezionare proteine di alto valore biologico ed elevata digeribilità. A differenza di quello che si potrebbe presumere i gatti affetti da pancreatite sono in grado di tollerare diete con un tenore medio-alto di grassi; anzi, i grassi rendono più appetibile l’alimento. Quindi non devono essere eliminati del tutto se non quando sia presente grave diarrea.

Nel caso in cui il problema sia prevalentemente costituito da IBD è bene utilizzare una fonte proteica o un alimento che contenga proteine idrolizzate. In ultima analisi, si ricorda che la fibra solubile può essere utile per la sua capacità di ridurre al minimo l’assorbimento intestinale di ammoniaca.

Prognosi e conclusioni

Se individuata in tempo, ed affrontata con il giusto approccio medico farmacologico, la prognosi della triadite è favorevole. Dobbiamo però ricordare che esistono anche situazioni particolari, spesso legate a gravi compromissione dello stato clinico del paziente, in cui essa può diventare da riservata ad infausta.

Quando i nostri gatti iniziano a presentare uno o più sintomi tra quelli che abbiamo descritto è perciò sempre consigliata una visita veterinaria tempestiva. Questo ci permette di individuare il problema in tempo utile e aumentare la possibilità di guarigione rapida e completa.

Nella maggior parte dei casi, con il giusto supporto medico e un’ospedalizzazione di durata variabile in relazione alla gravità della patologia, i nostri pazienti ritornano più in forze di prima.

Quando serve gioco di squadra: il ruolo del tecnico veterinario

Le nostre “infermiere” si presentano e ci raccontano cosa significa essere tecnico veterinario

La Clinica San Paolo ha deciso di investire sulla professione di infermiere veterinario circa 2 anni e mezzo fa: oggi il nostro staff di tecnici veterinari si avvale di quattro dottoresse in Produzioni e gestione di animali in allevamento e selvatici. Uno staff giovane, affiatato, curioso, fatto di persone con tanta voglia di crescere e migliorare, al servizio del veterinario e del cliente.

La prima ad entrare in squadra è stata Sara, che ci ha supportati grazie al suo background in Scienze Zootecniche e in particolare di alimentazione e nutrizione animale.
Quindi sono arrivata io, Valeria, che prima di esercitare questa professione mi ero focalizzata sullo studio degli animali selvatici ed esotici e avevo sviluppato la mia esperienza in un Centro di Recupero di Fauna Selvatica. A noi si sono aggiunte anche Valentina e Adelaide, due dottoresse anche loro formate in ambito zootecnico e selvatico.

La provenienza da contesti differenti per noi rappresenta di certo un valore aggiunto: ci permette di confrontarci, scambiare esperienze, considerazioni e nozioni e di accrescere la nostra professionalità. Ciò che però ci unisce è la passione per gli animali da compagnia e la voglia di fornire loro le migliori condizioni possibili durante la permanenza in clinica. Anche per questo vogliamo raccontarvi meglio in cosa consiste il nostro lavoro e qual è il nostro ruolo nella vita della Clinica

Chi è il tecnico veterinario

In Italia, negli ultimi decenni, il campo della veterinaria si è modificato: è cambiata la clientela e il tipo di struttura in cui il medico veterinario esercita la sua professione, il lavoro è diventato più specialistico ed è nata così l’esigenza della figura del tecnico veterinario.

Il tecnico veterinario svolge la propria attività in stretta collaborazione con il medico veterinario, supportandolo in diverse attività: segreteria, ambulatorio, radiologia, chirurgia, ricoveri, pronto soccorso e laboratorio. Permette così al medico di ottimizzare i tempi e svolgere il suo lavoro con maggiore efficienza e rapidità.

Dove si forma?

L’attività del tecnico veterinario richiede competenze e nozioni adeguate, che si acquisiscono attraverso appositi percorsi di formazione. Per diventare tecnico veterinario i più indicati sono: la Laurea di Primo Livello in un corso universitario che appartenga alla classe di Laurea L-38 (Produzione e Gestione di Animali In Allevamento e Selvatici, Allevamento e Salute Animale, Tutela e Benessere Animale, per citarne alcuni) oppure il diploma Abivet.

Che ruolo ha?

Il tecnico veterinario ha il ruolo di assistere il medico veterinario in tutte le procedure cliniche e di essere di supporto alle cure infermieristiche degli animali ricoverati all’interno della struttura.

Una parte importante del lavoro del tecnico è quella di permettere al medico veterinario di dedicare maggiore tempo, approfondimento ed energia a tutte quelle mansioni che richiedono l’intervento esclusivo del medico. In questo senso il tecnico, facendosi carico di alcune funzioni non strettamente mediche, come la comunicazione con i clienti, le mansioni amministrative, l’organizzazione e manutenzione degli strumenti e dei materiali di consumo, la preparazione degli ambienti e delle apparecchiature e soprattutto nei compiti pratici e manuali, mette il medico in condizione di poter intervenire al meglio focalizzando il suo impegno solo nella cura dei pazienti.

Che cosa fa per voi?

Il tecnico veterinario è una importante figura di mediazione, un collegamento essenziale tra i medici e i clienti. Può ricevere il cliente che ci contatta al telefono o via mail e occuparsi dell’accoglienza in segreteria o in pronto soccorso.

Spesso, per interfacciarsi con i proprietari, il medico veterinario si avvale appunto della figura del tecnico, ad esempio per quanto riguarda le visite agli animali ricoverati, gli aggiornamenti quotidiani sullo stato di salute e le brevi comunicazioni.

Che cosa fa per i vostri animali?

Ciò che più sta a cuore al tecnico veterinario è ovviamente la salute degli animali.

Il tecnico si occupa del benessere dei nostri amici sotto tutti i punti di vista:

  • mantiene pulito il ricovero, i box in cui gli animali trascorrono la degenza e tutti gli strumenti che si utilizzano per la loro gestione
  • si assicura che il paziente stesso sia sempre pulito, che abbia sempre cibo e acqua a disposizione e che ne assuma in maniera adeguata
  • gestisce l’animale dal punto di vista clinico, monitora e controlla la corretta esecuzione delle terapie e il funzionamento di tutte le apparecchiature eventualmente necessarie
  • prepara i pazienti per procedure cliniche-chirurgiche, fornendo un ambiente sereno e idoneo alle loro condizioni e infine riservando loro quelle cure, attenzioni e coccole che risultano spesso fondamentali al raggiungimento del miglioramento clinico o della guarigione. 

Una parte fondamentale del nostro lavoro è infatti quella di far sentire l’animale il più possibile sereno, come a casa, come se fosse il nostro animale, non limitandoci ad eseguire le procedure ma realizzandole con amore, dedicandogli attenzioni, avendo cura dei dettagli, come la scelta di una coperta più morbida, di una ciotola più agevolante o di un cibo più appetibile e ovviamente, quando ben accette, riservandogli tante coccole che spesso costituiscono un incoraggiamento affatto irrilevante al miglioramento clinico.

Ciò che c’è alla base di questa professione non è solo l’amore per gli animali, perché spesso non basta, è un profondo senso di rispetto verso queste creature, verso le quali si sente che cure e attenzioni non siano solo meritate, ma dovute. E’ dedicare, a volte sacrificare, tempo ed energie per una causa che ne vale davvero la pena.